Generazione 56K: la recensione

La prima serie tv della TheJackaL amplia la parte tenera e nostalgica della loro produzione. Generazione 56K però non trova la loro originalità

Critico e giornalista cinematografico


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Generazione 56K, la recensione della serie dei The Jackal

Chi ha seguito la carriera del collettivo TheJackaL sa che nelle loro produzioni coesistono diverse anime. Da videomaker (al servizio di commissioni del comune o più spesso ancora per campagne pubblicitarie e infine anche solo per se stessi) hanno prodotto video di diverso tenore, finalità e caratteristiche. Ci sono quelli improntati sulla tenerezza, con bambini protagonisti, ci sono quelli molto divertenti che lavorano sul montaggio come espediente creativo, ci sono quelli demenziali, quelli d’azione, quelli sentimentali e quelli generazionali.

Addio Fottuti Musi Verdi, il loro primo e unico film, era stato un condensato molto versato sul lato dell’umorismo e dell’azione, capace di unire le diverse anime facendole convivere come nessun video prodotto aveva fatto in precedenza. Era proprio un film nel senso pieno del termine, ovvero un’operazione di scrittura e sintesi audiovisiva di diverse ossessioni che nel montaggio aveva la sua arma prediletta.

Generazione 56K è un’altra cosa, sceglie di non avere quella densità tecnica ma come molte serie opta per uno stile più calmo e addirittura condivide il lavoro di regia (storicamente riservato a Francesco Ebbasta) con Alessio Maria Federici, comprovato mestierante della commedia innocua.

La serie da 30 minuti ad episodio lavora su due tempi, il passato e il presente, legandoli con la scrittura e (incredibile per la TheJackaL!) molto meno con il montaggio. Nel presente Daniel e Matilda si reincontrano dopo più di un decennio, inizialmente senza che lui sappia chi è lei. Nel passato Daniel e i suoi amici scoprono internet, le ragazze, il porno e l’amicizia, tutto insieme. Nel presente c’è una storia d’amore che fatica a concretizzarsi. Nel passato c’è l’origine di quell’amore.

I volti noti del collettivo sono comprimari (Fabio Balsamo e Gianluca Fru), questa è una storia sentimentale nel presente e tenera nel passato che l’umorismo lo tiene a bada, lo coltiva in un angolo, lo usa per dare equilibrio e non per far procedere la narrazione. Generazione 56K è operazione nostalgia a tutti gli effetti non ha timore di indugiare sui sentimenti più semplici, anzi ci affonda le mani. Affonda le mani nella tenerezza delle prime esperienze, nella nostalgia del rumore del modem a 56K, delle canzoni degli 883 e nell’ingenuità delle VHS porno.

È la materia alla base di molta delle produzione (non solo loro) audiovisiva per la rete, è la medesima base dei meme e dei gruppi facebook. La materia di cui sono fatti i social network è l’arma di questa serie.
Fa venire gli occhi lucidi vedere finalmente una produzione italiana che non racconta la presenza della tecnologia nella nostra vita come una degenerazione ma individua in essa uno strumento di salvezza e miglioramento. Internet, le startup, le app, le possibilità delle nuove tecnologie sono ciò che serve ai personaggi per perseguire i propri fini e non ciò che gli impedisce di raggiungerli, sono un compagno e un amico (oltre a quelli reali) e non il nemico. Anche solo per questo il racconto di Generazione 56K è più veritiero e autentico di qualsiasi altro vediamo in giro.

generazione 56k matilda

Peccato che la scrittura questa volta non sia a livello delle intenzioni. Lungo tutti gli episodi c’è una malagestione dei comprimari che allunga di molto il brodo. Invece che infilare sottotrame e altri intrecci, tutta la serie mantiene molto ferma la barra e l’arco narrativo dei personaggi (sia nel passato che nel presente), la loro storia è una e non tante, confidando in piccole trame parallele e accessorie dei comprimari per riempire. Queste suonano sempre pretestuose e gli stacchi su di loro hanno la mestizia delle peggiori fiction italiane. Decisamente non è il cinema che Francesco Ebbasta (cioè Francesco Capaldo) aveva portato in sala con Addio Fottuti Musi Verdi e ha portato moltissime volte online. Non ha mai quella forza data da un montaggio imprevedibile e non ha mai quell’irruzione spontanea di un po’ di follia nella scrittura.

Generazione 56K invece è programmaticamente il massimo del prevedibile e dell’usuale senza che a questo (che in sé non è il male) sia affiancata una capacità di lavorare sui meccanismi eterni del racconto. Sul classico. Dispiace tantissimo vedere come la trama passata lavori in armonia con quella del presente senza che mai una metta in crisi l’altra, senza che quel che vediamo in uno dei due tempi apra consapevolezze su quel che avviene nell’altro. C’è un momento in cui sembra di intuire che questo possa avvenire, quando entrata in macchina (l’eterna Panda Verde) Matilda, indecisa e piena di dubbi, guarda nello specchietto retrovisore e vede se stessa da piccola che la guarda in cagnesco. In quel momento per la prima volta sembra che quel che sappiamo del passato metta in crisi il presente, per la prima volta un’immagine suggerisce che c’è di più della trama in questo racconto e ciò che quel personaggio era viene a chiedere i conti a quel che è diventato, come un demone che si presenta nel momento giusto, ricordandole il suo sentire più intimo.

generazione 56k daniel matilda

Ma è solo un momento, il resto della serie tiene staccati i due tempi come se l’uno fosse il prequel dell’altro. Preferisce navigare su porti sicuri, sentimenti facili ed esiti pedissequi. Se Addio Fottuti Musi Verdi, guardando a Edgar Wright, riusciva a raccontare qualcosa di semplice come l’amicizia prendendo strade assurde e facendo arrivare gli alieni perché due persone (e noi pubblico) capissimo qualcosa, Generazione 56K non mette in connessione passato e presente (come fa l’ultracitata saga di Terminator) per trovare percorsi diversi, unici e personali che sbattano in faccia allo spettatore una consapevolezza più profonda del solo trionfo dell’amore.
Con uno spunto simile (come già scritto, ottimo, auspicabile e finalmente diverso dalla solita visione retrograda dell’Italia e degli italiani) sviluppare il racconto con così poca vitalità e, a mano a mano che ci si avvicina al finale, così poco ritmo e voglia di stupire, da parte di un collettivo che invece proprio di quello aveva fatto la propria marca, suona come un’occasione sprecata.

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