Gangster Squad, la recensione

Tra Gli intoccabili e Dick Tracy con un look preso da L.A. Noire, l'impressione è che il grande cast sia fuori parte in un film lontano dal realismo dei classici del genere...

Critico e giornalista cinematografico


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Ruben Fleischer non è tipo da film come Gangster Squad e questo lo si capisce subito, fin dalle prime scene, così appoggiate alle consuetudini del noir moderno e all'idea archetipa del genere, da non avere personalità e flirtare involontariamente con le parodie.

Regista di Benvenuti a Zombieland e 30 minutes or less, Fleischer si trova più a suo agio con i registri di commedia e soffre invece alle prese con personaggi che dovrebbero apparire tormentati e inconoscibili, duri fuori e morbidi dentro, invecchiati da una vita infame ma desiderosi di un domani migliore, idealisti a modo loro. Il simbolo di tutto ciò è Sean Penn, truccato a metà tra un villain di Dick Tracy e il grande James Cagney.

Il risultato è che Gangster Squad sembra un film realizzato da un team di agenti e una troupe di avvocati che si sono seduti a tavolino e hanno strutturato la sceneggiatura in maniera equa e soddisfacente per tutti i loro clienti, dividendosi i ruoli e le scene madri, dando ad ognuno quel di cui ha bisogno per la propria carriera e per il personaggio che si sta cucendo addosso. Poi tutti insieme hanno concordato che per il bene comune sarebbe stato buono che il film avesse anche dei momenti che lo identificassero come un'opera importante, con citazioni in linea con l'ambientazione noir anni '40. Così ritroviamo classici del genere già visti come la voce fuoricampo, l'inquadratura da dentro la piscina di un cadavere e addirittura, in un eccesso anacronistico, la sparatoria sulla scalinata.

Il risultato è un film in cui attori di grande calibro appaiono fuori parte (Emma Stone prima tra tutte), in imbarazzo con gli abiti che indossano e gli ambienti in cui si muovono. E l'eccesso di violenza non aiuta.

Il tratto più clamoroso di questo film di Ruben Fleischer è allora la maniera in cui la dimensione visiva rimandi ad L.A. Noire più che ai classici cinematografici. Dal videogame Rockstar il film prende moltissimo, dalla scelta dei luoghi (che tipo di locale, che stazione di polizia) a quella delle auto fino al look dei personaggi e ad una certa estetica della "pulizia". Abiti, luoghi e macchine tirate sempre a lucido e stirati contro ogni pretesa di realismo (si pensi al lercio di Chinatown di Polanski), per un protagonista poliziotto appena rientrato dalla guerra in una città corrotta. Insomma, l'audiovisivo è una grande famiglia e sempre di più il videogioco è ammesso al tavolo dei grandi, avendo così la possibilità di contribuire a ridefinire l'estetica dei film e delle serie tv, oltre che esserne influenzato a sua volta.

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