Gangs Of London (prima stagione): la recensione
A partire dalla maniera in cui Gomorra ha cambiato le serie Gangs Of London costruisce una racconto calvinista, multirazziale e violentissimo
Gomorra - La serie non è passata invano nel Regno Unito.
Gangs of London riprende senza dubbi o esitazioni il mood, il modo di trattare i criminali come una famiglia reale, la serietà del contesto e la maniera di far interagire i personaggi, senza contare proprio le scelte di fotografia di Gomorra. È la loro versione, identificata dal fatto di essere una storia di mafia multirazziale, in cui le fazioni che si scontrano si differenziano innanzitutto culturalmente ma devono in qualche modo convivere (fino a che non si fanno la guerra).
In questa storia si inseriscono due elementi di intreccio semplicissimi, quasi basilari. Il primo è che qualcuno ha ucciso il patriarca di una famiglia potente ma anche divisa al proprio interno, e quindi non stupisce nessuno che il figlio delfino parta alla ricerca violenta del responsabile. Il secondo è che all’interno di questa famiglia, in una posizione da sgherro ma con crescente fiducia, c’è un infiltrato della polizia. Gangs Of London comprime tante stagioni in una, ci sono svelamenti, eventi e cambi di tono come si vedono nelle prime tre annate di Gomorra e quel che accade a partire da questi presupposti classici, cerca il più possibile di virare verso l’assurdo ma plausibile.
A cambiare è invece la maniera in cui è raccontato questo grande intreccio di diverse gang criminali, con diverse usanze e diversi obiettivi o anche solo percorsi per mettere le mani su Londra. Gangs Of London ha un grande problema di narrazione. Gli manca la caratteristica principale di qualsiasi serie di successo, la clamorosa chiarezza che rende possibile seguire un racconto anche senza prestare eccessiva attenzione, o che almeno fa sì che con il solo riassuntino che precede la puntata ci si possa mettere in pari. L’ansia di accumulare e di far lavorare lo spettatore qui è tale che ci si perde spesso e nonostante i molti eventi e il passo svelto si può sconfinare anche nella noia, sperduti in mezzo a trame intrecciate che prendono troppe strade diverse.
E non stupisce in questo senso che la nostra porta d’ingresso nella serie sia il poliziotto infiltrato, l’uomo che deve fingersi malavitoso e per questo perdere tutto, correre più di tutti e lavorare il doppio degli altri per averne la fiducia. Non a caso un afro-britannico, qualcuno la cui credibilità è tutta da conquistare in una famiglia bianchissima. Se a Scampia il successo è una questione di famiglia, di quella cui appartieni o di quella che devi creare, a Londra chiunque può farsi strada ma con un eccesso di violenza, con una fatica fisica che non ha paragoni. È l’etica del grande lavoro applicata alla mafia che diventa anche l’inevitabile dovere di chi è immigrato di portare il doppio dei risultati.
Nella società più multiculturale d’Europa, che attrae persone diverse da provenienze diverse per fare affari, anche la malavita sembra seguire le stesse regole. Allora una famiglia tradizionale si contamina con nuovi ingressi, un possibile sindaco indiano ha dietro di sé una gang mafiosa, degli arabi con interessi in Medio Oriente sono presenti per raccogliere denaro e anche gli africani sembrano trovarsi a casa loro con i loro metodi. Intorno al cantiere di un grattacielo (che è il simbolo della serie) Londra sembra aperta per fare affari con tutti ma non tutti alla stessa maniera. In cima sempre la tradizione, chi è lì da tanto, in fondo chi è percepito come una novità, un elemento alieno. Intorno il mondo.