Game of Thrones 5x06 "Unbowed, Unbent, Unbroken": la recensione

L'ultimo episodio di Game of Thrones è deludente, tanto negli eventi a Dorne quanto in quelli a Grande Inverno

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Spoiler Alert
Il tema centrale di Unbowed, Unbent, Unbroken è l'orgoglio. La cieca autoillusione di essere migliori di quanto in effetti non si è, l'incapacità di guardare lontano e prevedere il volgere della marea, l'impossibilità di considerare tutti i fattori in gioco per opporre la migliore risposta, in genere la più lontana possibile da quella consigliata dall'istinto. Tutte caratteristiche che a loro volta erano emerse in vari momenti nella scrittura della prima parte di stagione. Chiamiamoli campanelli d'allarme, piccoli segnali che nell'ultima puntata sono esplosi presentando di fatto il manifesto delle critiche tradizionalmente mosse alla serie della HBO. Contrariamente al titolo dell'episodio, che fa riferimento al motto della Casa Martell, Game of Thrones questa settimana si piega e infine si spezza sotto il peso della sua stessa storia.

Non credo sia giusto sostenere, come spesso avviene, che in Game of Thrones non succede mai niente. In una storia con circa venti personaggi principali e innumerevoli secondari, con scenari così diversi e grandi possibilità, bisogna dare il tempo ai caratteri e alle vicende di respirare. Non è pensabile procedere solo per eventi decisivi, la storia ne verrebbe soffocata. Che non è niente di più di quello che avviene in ogni altra serie. La differenza qui è che lo stesso percorso va raccontato necessariamente in meno tempo, che ogni scena deve aggiungere qualcosa perché il tempo a disposizione è davvero poco, e paradossalmente comunque non basta, perché il tempo di nominare metà dei personaggi già porta via un intero episodio. Tutto questo per dire che, normalmente, la lentezza della serie è un elemento interno alla storia, probabilmente irrinuciabile data la sua unica struttura. In pratica, bisogna conviverci, ma non sempre.

Non questa volta. La parte migliore della puntata si svolge a Braavos, con Arya ancora impegnata a cercare di dimostrarsi meritevole di apprendere i segreti degli uomini senza volto. Jaqen la osserva, riesce a leggere tra le sue bugie, forse anche quelle che la ragazza racconta a se stessa, e infine le concede una possibilità. Come Bran – che quest'anno non abbiamo visto e non vedremo – anche lei ha trovato un mentore pronto a introdurla ai segreti della magia sacra. Come in passato, Maisie Williams e Tom Wlaschiha dimostrano un'ottima alchimia in scena, ma stavolta è la spettrale cornice del tempio ad aiutarli: davvero affascinante e riuscita la ricostruzione della "sala dei mille volti", sarebbe stato un ottimo climax finale, migliore e più elegante di quello scelto sicuramente.

Rimanendo nel continente orientale non vediamo Daenerys, anche se scopriamo che la notizia della riapertura delle fosse di combattimento ha viaggiato in fretta. Seguiamo quindi l'ultima parte del viaggio in solitaria di Tyrion e Jorah, che vengono sorpresi da un gruppo di schiavisti guidati da un personaggio interpretato dal volto noto e dal nome impronunciabile Adewale Akinnuoye-Agbaje (Oz, Lost). È riuscito il momento di confronto tra i due viaggiatori, nel quale si raccontano il rispettivo e difficile rapporto con il padre, meno l'idea di mettere Tyrion in immediato pericolo di morte, con lo schiavista che vuole sgozzarlo, e di tirarlo fuori in breve: il personaggio ovviamente non è mai in pericolo ai nostri occhi, e gli argomenti che usa per salvarsi – la situazione in generale – non sono degni dell'intelligenza dimostrata dal personaggio in altre occasioni (scopriamo però che ad Essos esiste un mercante per ogni cosa). Il Folletto continua a passare da una mano all'altra a causa di incontri fortuiti, ci avviciniamo sempre più a Daenerys, non molto più di questo.

Ma dove davvero l'episodio avrebbe dovuto brillare e invece sprofonda nella mediocrità è nel segmento a Dorne. Avevamo dato un'occhiata veloce ai Giardini dell'Acqua in precedenza, ma tanto era bastato, con il suo fascino esotico e i richiami alla Spagna (che è effettivamente la location) per incuriosirci e catturarci. Il fantasma della scomparsa di Oberyn invece è andato sprecato. Le storie delle Serpi delle Sabbie e di Jaime, che convergono – con frustrante puntualità – nel salvataggio/cattura di Myrcella, sono state gestite con tempi narrativi sbagliati, coincidenze su coincidenze e una risoluzione tra le più scialbe che si ricordino. Il miserevole complottino di Ellaria e delle figlie di Oberyn si risolve in un nulla di fatto, ma quel che è peggio – e a quattro episodi dalla fine possiamo trarre un bilancio – è che uno dei più pesanti fallimenti della stagione è di aver toppato con i Martell.

Non sappiamo nulla di loro e di conseguenza non ci interessa nulla della situazione. Doran sembra un personaggio più saggio e stratificato di quel che appare, ma è rimasto sullo schermo per due scene. Idem per Obara e le altre, ma anche per Trystane e la stessa Myrcella (un po' di romanticismo a caso che sembra uscito, complice il setting, da una soap spagnola per ragazzi), che sono completi estranei e che per quel che sappiamo appaiono odiosi. Praticamente l'unica forza della storyline è garantita dalla presenza di Jaime e Bronn, che presi individualmente e come coppia funzionano benissimo, ma che sono stati mandati al macello in una missione impossibile e per la quale, nonostante le varie coincidenze fortunate, non si sono dimostrati all'altezza. Peccato, perché l'intuizione di unirli e dargli uno scopo comune, completamente inedito rispetto ai romanzi, era ispirata e intelligente. Non altrettanto l'esecuzione.

Stesse considerazioni per l'ascesa degli Sparvieri ad Approdo del Re. L'improvvisa forza assunta da questo gruppo spuntato dal nulla è difficile da mandar giù, ma era una storyline irrinunciabile, anche solo per mostrare il lato più oscuro – e stupido – di Cersei. Nella sua miopia la regina ha distrutto gli equilibri costruiti a fatica, e con il sangue, dal padre. L'idea del processo all'erede al trono della Casa più ricca del continente chiede molto alla nostra sospensione dell'incredulità, ma è davvero troppo credere che la stessa regina venga costretta sulla base della semplice parola di uno scudiero. Cersei intanto brancola veramente nel buio, quasi imbarazzante nel suo tentativo di ritagliarsi uno spazio nel gioco del trono, quando il pericolo per lei – che si conoscano o meno le vicende future – è evidente. E, a proposito di gioco del trono, non è del tutto chiaro il piano di Petyr. A quanto pare ha deciso effettivamente di stare dalla parte del trono per stavolta, e di piombare sul vincitore ferito tra Stannis e Roose per impadronirsi del nord. Allora è davvero disposto a sacrificare Sansa?

E arriviamo al finale di puntata, momento più discusso e discutibile. Buona parte del fascino di Game of Thrones risiede nel coraggio di abbattere la sacralità e l'intoccabilità dei suoi protagonisti. È rivoluzionario decapitare un protagonista, così come lo è far esplodere la testa ad un eroe umiliandolo, eppure questi momenti non avrebbero lo stesso impatto se non fossero controllati e ben costruiti. Si tratta pur sempre di giocare con regole consolidate e conosciute dello spettatore, basta un passo falso e salta tutto, arrivando al completo rigetto. La scena dello stupro di Sansa non è riuscita per questo. Non perché sadica, non perché crudele, ma perché volgare e disturbante (in un senso non ricercato dagli autori, diverso da quello che era stato lo stupro di Daenerys). C'è quasi un momento in cui sembra che, come Darth Vader, Theon si risvegli dal torpore ribellandosi contro il suo padrone per salvare qualcuno a cui in precedenza aveva fatto del male. Niente di ciò avviene, e la scena volge sul nero. Noi rimaniamo immobili, non sconvolti ma semplicemente perplessi.

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