Game of Thrones 5x04 "Sons of the Harpy": la recensione
Il quarto episodio di Game of Thrones ci conduce ad un epilogo inaspettato
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Trova una seconda e più forte lettura in Sons of the Harpy la frase che Cersei rivolgeva in High Sparrow al capo della setta religiosa che prospera ad Approdo del Re. Il potere temporale e il potere spirituale che, in un mondo in cui le vite degli uomini sembrano valere così poco, tengono tra le mani il destino di intere generazioni, e il pericolo che può derivare quando queste due forze si sovrappongono. Memorie di epoche lontane e di uomini morti da tempo si incontrano, nell'ultimo episodio di Game of Thrones, per muovere le motivazioni di chi è ancora in vita, ma tutto sembra già correre via, verso scontri più grandi e presenze impalpabili, forse sovrannaturali. Come Jon Snow, noi non sappiamo niente, brancoliamo nel buio, il suo volto impietrito è anche il nostro, ma i collegamenti da un estremo all'altro del mondo si moltiplicano.
E, dato che vogliamo credere che nulla (beh, diciamo quasi nulla) sia casuale nella scrittura della serie, non sembra coincidenza da poco il fatto che per due volte, in luoghi e circostanze completamente diversi, si faccia il nome di Rhaegar Targaryen nella puntata. La prima volta sarà Ditocorto a ricordare come il principe sorprese tutti nel corso di un torneo, omaggiando Lyanna Stark al posto di Elia Martell ("Then he kidnapped her and raped her", gli risponde Sansa), mentre la seconda volta sarà Barristan Selmy a ricordare questa figura, presentandola tuttavia come quella di un nobile che avrebbe solo voluto cantare piuttosto che combattere. Due azioni che profeticamente diventeranno fin troppo simili quando il vecchio cavaliere canterà la sua, probabile, ultima canzone per Daenerys.
Naturalmente la citazione d'apertura ci riporta a quella che è la visione religiosa più "terrena" e meno sovrannaturale, quella degli Sparvieri della capitale. La miopia di Cersei, sempre più accecata dal potere e dalla possibilità di perderlo, la spinge a restringere sempre più il concilio, e a restituire la forza delle armi ai fanatici religiosi guidati dall'Alto Sparviero. Sono le condotte meno "accettabili" a farne le spese, e quindi il bordello di Petyr e – a dimostrazione che la punizione non tiene conto dei ceti sociali e delle nobili origini – anche Loras Tyrell. Il tutto su indicazione espressa di Cersei, che nel frattempo ha avuto anche l'idea di inviare Mace Tyrell a Braavos per trattare con i banchieri (gli stessi che a quanto pare hanno accordato i loro favori a Stannis). A scortarlo nella spedizione il cavaliere della guardia reale Meryn Trant, che ricordiamo essere tra i nomi dell'odio di Arya.
È il solito Game of Thrones. C'è tanto di nascosto e di bello in una singola puntata. Finalmente vediamo qualcosa di Dorne, il territorio dei Martell. Non molto in effetti, tant'è che le due scene che riguardano Jaime e Bronn da un lato e le Vipere delle Sabbie dall'altro sembrano ambientate a cento metri l'una dall'altra, ma è qualcosa. Nel primo caso abbiamo la conferma che l'alchimia tra i due personaggi funziona molto bene (ma Bronn è un jolly, funziona bene con tutti) e ci viene ricordato l'affetto, forse qualcosa di più, che Jaime prova nei confronti di Brienne: dalla nave avvistano l'isola di Tarth, da cui il cavaliere proviene, e non è detto che Jaime stia parlando di Cersei quando dichiara che vorrebbe morire tra le braccia della donna che ama. Per quanto riguarda la compagna e le figlie di Oberyn si fa solo un lavoro d'introduzione e nient'altro: i Lannister non vogliono scatenare una guerra, ma qualcun'altro lo vorrebbe.
Impossibile non citare infine la scena tra Stannis e Shireen. Dura poco, non aggiunge praticamente nulla alla trama (a meno che Melisandre ad un certo punto non richieda il sacrificio della bambina e Stannis si trovi a dover scegliere), ma è semplicemente adorabile.