Game of Thrones 4x06 "The Laws of Gods and Men": la recensione
Il sesto episodio di Game of Thrones allontana sempre di più la serie dai romanzi
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Queste erano le parole che Varys rivolgeva a Tyrion in un dei dialoghi più noti in Game of Thrones. E sono parole che tornano alla mente in un finale tra i più intensi costruiti dalla serie al di fuori delle ormai famigerate "puntate nove" di ogni stagione. Peter Dinklage adombra il resto della storia, dei personaggi, degli intrecci, riempiendo con la sua pur piccola figura tutto lo schermo, costruendo un climax imponente in vista delle prossime puntate, e risollevando una puntata che per il resto non aveva esattamente brillato. Questo è, in poche parole, The Laws of Gods and Men, sesto episodio stagionale della serie della HBO.
Dopo essere apparsa sempre più spesso nei dialoghi delle ultime settimane, descritta come un corpo astratto, ma tanto concreto nell'influenza sottile che esercita nella stabilità o meno dei governi, vediamo infine la Banca di Braavos. Più o meno. In realtà, tenendo fede alla sua natura astratta e sfuggente, la famigerata struttura non si presenta altro che come un ampio salone con un tavolo e tre persone (una di queste è Mark Gatiss, il Mycroft di Sherlock). Gente concreta, che si affida ai numeri, ma che tuttavia sembra disposta a cambiare opinione e ad appoggiare Stannis in seguito ad un accorato e convincente appello di Davos. Meno di quanto ci aspettavamo, ma nemmeno un segmento da bocciare.
E poi c'è Daenerys. Sinceramente qui c'è solo da sperare che la scrittura si prenda le maggiori libertà possibili rispetto alla controparte cartacea. Senza anticipare assolutamente nulla, il rischio è di ritrovarsi d'ora in avanti in presenza di una serie di piccoli momenti settimanali che tengano viva la presenza della storyline più indipendente di tutte nella saga, ma senza adeguati e interessanti sviluppi. Qualcosa, nel primo contatto tra la Madre dei draghi (più i mille altri epiteti con i quali la scrittura ormai sembra scherzare) e Hizdar Zo Loraq, sembra suggerire questa strada. Vedremo.
Nella seconda parte dell'episodio si cambia completamente registro. Ad Approdo del Re gli eventi precipitano e qualcosa nella sottile parvenza di equilibrio raggiunta dopo la morte di Joffrey sembra spezzarsi nell'udire le inferocite parole di Tyrion, ormai giunto ad un punto di non ritorno. Il personaggio di Peter Dinklage ha sopportato in silenzio, o con l'arma dell'ironia, le offese, i tradimenti, il mancato riconoscimento del proprio valore, ed è quasi pronto a ingoiare anche l'ultima goccia del proprio orgoglio pur di salvarsi la vita (a differenza di Ned Stark rimane pur sempre una persona molto pragmatica). Ma l'apparizione improvvisa e gelante di Shae sul banco dei testimoni, pronta a tradirlo per stupida rabbia (il personaggio di Shae, così come è stato costruito nella serie tv, perde tantissimo con questo gesto), lo spinge a rischiare il tutto per tutto, sfidando con una voce quasi non sua l'intera corte – e soprattutto suo padre – chiedendo un giudizio tramite duello, lo stesso che gli salvò la vita a Nido dell'Aquila.
Questo è il momento più delicato per Game of Thrones. L'ingiustificato ottimismo di chi riteneva di avere ancora un discreto margine rispetto alla serie tv lascia il passo ad una storia che sembra avere il fiato più corto ad ogni episodio. In più di un momento i dubbi si accavallano, gli interrogativi su come tirare avanti senza affondare nella stasi e senza strozzarsi nel groviglio di trame si fanno più presenti. Poi però si assiste ad un finale di questo tipo, con questa regia, questa scrittura e queste interpretazioni, e allora la speranza non sembra più un miraggio.