Game Of The Year, la recensione

Diversi personaggi che orbitano da indipendenti intorno ai nuovi mestieri dei videogiochi sono in Game Of The Year l'occasione per parlare di luoghi

Critico e giornalista cinematografico


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Game Of The Year, la recensione

Non era mai stato fatto un lavoro come Game Of The Year, cioè il racconto dei nuovi professionisti che lavorano a livello indipendente attorno alla videoludica. È il nuovo mondo dei videogiochi quello in cui non solo i grandi studi possono produrre, quello in cui i videogiochi sono diventati un contenuto di intrattenimento, quello in cui esistono giocatori professionisti, aspiranti tali, pixel artists, fiere di settore e sviluppatori di periferia.
Un documentario del genere, per quanto vicino al classico Indie Game - The Movie, non era mai stato fatto soprattutto in Italia. La realtà videoludica italiana degli indipendenti è un mistero per chi non ci è dentro. Game Of the Year, presentato in anteprima al Biografilm Festival, non solo fa un necessario lavoro di racconto ed esposizione ma compie anche un paio di scelte visive non da poco.

Diviso in capitoli un po’ pretestuosamente e forse eccessivamente lungo (dura un po’ più della quantità di informazioni che ha da esporre o di cose che ha da dire, finendo per ripetersi), il documentario di Alessandro Redaelli è interessato alla real life, ai suoi ambienti e al mondo non inquadrato dalle webcam o non raccontato dai giochi. Non solo le fiere di cui sottolinea molto la caratteristica di capannoni industriali, non solo le competizioni internazionali di cui inquadra oltre al palco anche le parti meno scenografiche, ma soprattutto le case, gli interni scarni, gli arredamenti vuoti, i quartieri periferici. Non c’è nemmeno una inquadratura in tutto il documentario che non dia l’impressione di marginalità.

Game Of The Year spoglia il mondo delle nuove professioni dei videogiochi di qualsiasi glamour (se mai l’abbia avuto eh!), gli leva ogni poesia e quindi ogni retorica, per svicolare qualsiasi desiderabilità. È quanto di più lontano da uno spot, è semmai la cronaca dura di vite dure.
Ci sono anche i soldi, ovviamente, ma sono un miraggio per pochi e più che altro un problema per i più. “Non ho mai sentito di un videogioco che ha venduto zero” dirà ad un certo punto uno sviluppatore indipendente in difficoltà, per rassicurare la persona con cui parla e anche se stesso. “Io non posso fare niente altro nella mia vita, so fare solo Pixel Art” dirà un’altra con un po’ di rassegnazione mascherata da fierezza incerta. Nessuno sembra appassionato, nonostante evidentemente sia necessario un grosso attaccamento per compiere quei sacrifici. Molti sembrano dei forzati di una vita in cui a contare più di tutto è la determinazione.

Redaelli cerca di guardare quel mondo esattamente per quello che è ma il suo punto di vista emerge inesorabilmente nelle scelte visive, nei luoghi e nei modi in inquadra i personaggi, nei dialoghi che sceglie di inserire. Non glorifica niente, nemmeno la vittoria di Reynor a lungo attesa, nemmeno una speranza di contratto e tantomeno il fatto che, a differenza di molti ambiti indipendenti di altre industrie culturali, questa è popolata dalla stranezza e dall’inconsueto. Facce, persone, fan, pubblico e consumatori sono una carrellata di corpi, volti e atteggiamenti non omologati. Quella dei videogiochi, al livello mostrato da Game Of The Year, è una comunità unita dal fatto che nessuno somiglia a nessun altro, in cui non sembrano esserci modelli di comportamento o anche solo d’abbigliamento dominanti e in cui, anche in mezzo alle grandi folle delle convention, ognuno sembra più solo di quanto non sia già.

Sei d'accordo con la nostra recensione di Game Of The Year? scrivicelo nei commenti.

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