Galline in fuga - L'alba dei nugget, la recensione

Il diabolico allevamento non è più una metafora storica dall’aspetto agreste: la derivazione, e quindi lo spirito del film, si fa essa stessa cinematografica, spostando il suo sguardo in un immaginario nuovo, potenzialmente interessante, ma talmente già visto da diventare vuoto.

Condividi

La recensione di Galline in fuga - L’alba dei nugget, disponibile su Netflix dal 15 dicembre

Sono passati esattamente 23 anni dall’uscita di Galline in fuga, il film di animazione in stop-motion che ha segnato un’intera generazione di giovani spettatori. Quello di Nick Park e Peter Lord non era un semplice film per bambini, bensì un’avventura dark non priva di crudezza, dove il tentativo di fuga di un gruppo di galline dall’allevamento della terrorizzante signora Tweedy era la chiara metafora di un campo di sterminio nazista. 

Riprendendo i vecchi personaggi e variando di poco il meccanismo base della storia (una fuga che qua diventa una fuga/salvataggio, l’isolamento come costrizione imposta), Galline in fuga - L’alba dei nugget abbandona quella cupezza così distintiva del precedente per abbracciare un tono più bambinesco, meno audace, derivativo nelle trovate ma non davvero dove servirebbe: nello spirito.

Diretto dal regista di Giù per il tubo e ParaNorman Sam Fell, Galline in fuga: L’alba dei nugget ritrova Park nei panni di produttore esecutivo. Riprendendo il precedente dalla sua conclusione, il film comincia con l’idillio di Gaia, Rocky e tutti i vecchi personaggi (Baba, Cedrone, la gallina svizzera, la coppia di topi-ladri…) nell’isola-riserva per volatili dove avevano trovato casa e libertà dopo la fuga dall’allevamento. Gaia e Rocky sono però diventati genitori, hanno responsabilità, ma la piccola Molly - come la madre - si sente costretta da quel recinto immaginario. La costruzione di una nuova strada sulla riva del lago e un furgone colorato che promette divertimento alle galline spingerà quindi Molly alla fuga, lanciando i personaggi in un eroico tentativo di salvataggio presso l’inquietante allevamento tecnologico del Dottor Fritto.

Il diabolico allevamento non è più una metafora storica dall’aspetto agreste: la derivazione, e quindi lo spirito del film, si fa essa stessa cinematografica, spostando il suo sguardo verso un immaginario nuovo, potenzialmente interessante, ma talmente già visto da diventare vuoto. E così, l’irruzione delle galline tra trovate e pericoli diventa la precisa irruzione di James Bond nel covo del cattivo - con tanto di personaggi-tipo (le guardie, lo scienziato pazzo, l’alleato capitalista), luoghi-tipo (la sala di controllo, quella del pericolo/delle torture) e meccanismi narrativi altrettanto tipici.

Volto totalmente al mandare avanti la trama di salvataggio e a spiegare i mille modi avventurosi in cui questo avviene, Galline in fuga - L’alba dei nugget si fa scontato su tutto il resto, raccontando una storia di amore familiare prevedibile che si fa evidente tramite dialoghi banali. Un vero peccato, perché, ripetiamo, se c’è qualcosa che ha reso Galline in fuga il capolavoro che è, era il suo storytelling, il suo coraggio di andare fuori dagli schemi e di fare un film che parlasse a diversi pubblici. Che Galline in fuga - L’alba dei nugget ne conservi bene l’eredità visiva, non fa che aumentare la nostra nostalgia per un passato irripetibile.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Galline in fuga - L’alba dei nugget? Scrivetelo nei commenti!

Seguiteci su TikTok!

Continua a leggere su BadTaste