Galavant 1x01 "Pilot"/1x02 "Joust Friends": la recensione
Divertente e un po' folle, il musical fiabesco Galavant riesce a convincere
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Sarebbe interessante raccogliere l'immensa eredità cinematografica/televisiva che va sotto il particolare genere della "rivisitazione fiabesca", per conoscere l'effettivo impatto avuto, negli ultimi quindici anni, da Shrek sul cinema e sulla televisione. Che è qualcosa che va al di là della grandissima e rinnovata fortuna del fantasy – che invece partiva da altre fonti – occupando piuttosto una categoria propria, fatta di brusche e "moderne" variazioni sul modello disneyano che di quelle stesse fiabe si era appropriato per decenni. Non è ovviamente questa la sede per trattare un argomento così vasto e apparentemente ben lontano dall'esaurirsi. Possiamo dire però che Galavant si inserisce perfettamente in questa parentesi, che a questo punto ci appare molto più coerente con se stessa e lineare di quanto potrebbe sembrare. Fatta questa lunga premessa, la nuova, folle serie della ABC merita? Vediamo.
Sì, perché Galavant è, tra le altre cose, anche un musical. Alle spalle delle canzoni originali che ascolteremo negli otto episodi di cui si compone la stagione si trova lo storico compositore Alan Menken, plurivincitore agli Oscar e figura chiave del cosiddetto "Rinascimento Disney", cioè quella fase degli anni '90 in cui lo studio d'animazione si riprendeva dopo un periodo di crisi. Sue le colonne sonore della Sirenetta, di Aladdin, della Bella e la Bestia e soprattutto, per il discorso che ci interessa fare qui, di Come d'incanto. Tra i molti riferimenti che troviamo nella serie ideata da Dan Fogelman, il film del 2007 occupa, infatti, un posto centrale. In quel caso, come qui, si tratta di riappropriarsi indirettamente di un genere che è inevitabilmente mutato rispetto al passato, e di farlo tramite quella stessa autoironia leggera che permeava i numeri musicali eseguiti da Amy Adams in Enchanted.
Galavant è fiaba, avventura, musical, comedy, ma anche e soprattutto parodia inevitabile di una visione fiabesca che, nella sua purezza originale, ormai non esiste più. È parodia fin dalle prime battute, quando un uomo descriverà il protagonista come "a fairytale cliché", e a questa leggerezza di fondo si atterrà in ogni momento del divertente doppio pilot da quaranta minuti, tra doppi sensi, slapstick e un velato infrangimento della quarta parete (ad un certo punto anche un riferimento a Game of Thrones).
La portata rivoluzionaria, dissacrante e metanarrativa della storia dell'orco verde – che negli ultimi capitoli diventava parodia di se stesso – viene quindi assorbita (in fondo anche Frozen, certo con una leggerezza più family oriented, giocava con le regole del gioco e con "l'atto di vero amore"), ma non del tutto spenta, e il prodotto trasmesso dalla ABC (che è legata alla Disney e che già trasmette Once Upon a Time) riesce, non senza una certa sorpresa, a convincere molto.
La serie funziona più nelle sue singole componenti che nel quadro generale. La storia è inevitabilmente debole, stiracchiata, e solo la prospettiva di soli otto episodi intervallati peraltro da alcune guest già annunciate ci conforta nella certezza di un ritmo costante. Tutto il resto funziona bene. Il cast è ottimo. Su tutto vincono gli scambi tra il re Richard e il suo sottoposto Gareth (Vinnie Jones, che tra il cinema di Guy Ritchie e varie apparizioni è difficile non riconoscere), che ricordano il Robin Hood di Mel Brooks. Le performance musicali sono ben eseguite e le canzoni sono divertenti, difficilmente noiose anche per chi, comprensibilmente, è allergico al genere, e insospettabilmente catchy. Ma soprattutto si ride. Niente di elaborato o particolarmente sottile (siamo letteralmente al livello degli "yo mama jokes"), ma tutto questo delirio similmedievale, tanto improbabile se raccontato, una volta eseguito trova una sua strada.