Gagarine, la recensione

In un viaggio metaforico ai confini di un doloroso cambiamento, Gagarine tenta di trasformare questa allusione in delicata poesia, affievolendosi però dopo poco

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La recensione di Gagarine, al cinema dal 19 maggio

Danzante e sognante su note celestiali, la macchina da presa di Fanny Liatard e Jérémy Trouilh fluttua attorno al sedicenne Youri (Alseni Bathily) descrivendone il centro di gravità: lui che si chiama come il primo cosmonauta è infatti l’ultimo baluardo di testarda resistenza - irremovibile dal suo appartamento-navicella - ai demolitori che stanno per buttare giù il complesso abitativo dove ha sempre vissuto, Cité Gagarine. In un viaggio metaforico ai confini di un doloroso cambiamento (Youri non ha nessun altro posto, né geografico né umano, da chiamare casa), Gagarine tenta di trasformare questa allusione in delicata poesia, affievolendosi però dopo poco nella ripetizione estenuata della metafora.

Il pur poetico parallelismo (strutturale, ma anche visivo) tra spazi vitali - quello della navicella e quello della casa che non si riesce ad abbandonare, oltre la quale c’è solo una spaventosa oscurità - è infatti così tanto ripetuto ed esasperato da diventare ridondante, non avendo al di sotto di esso una la forza narrativa necessaria per riempire quelle atmosfere di empatia verso i personaggi. Realizzato durante la vera demolizione del complesso situato nella periferia parigina, Gagarine, cocciuto come il suo protagonista, come questo sembra stremarsi di fatica mentre prova a salvare il salvabile e a mettere insieme pezzi sparsi.

Di Youri sappiamo che ha una madre assente, e che per lui Cité Gagarine (diversamente da alcuni condomini) deve essere salvata letteralmente ad ogni costo perché è la sua vera famiglia. Abbandonato a sé stesso in questo lotta, Youri trova punti di contatti con un mondo esterno attraverso Diana (Lyna Khoudri) e in piccola parte con il migliore amico Houssam (Jamil McCraven): di queste relazioni non percepiamo però mai la potenza, il significato, così come di Youri vediamo l’urgenza di salvare un mondo senza però capirla nei suoi aspetti personali.

La cosa bella di Gagarine è invece l’aspetto puramente immaginativo e visivo: il modo in cui Liatard e Trouilh mettono in scena la casa di Youri, dolcemente adolescenziale e brillantemente creativa, ha in sé una bellezza squisitamente scenografica. Si tratta di un luogo (con tanto di serra!) che viene voglia di esplorare, e che al contempo i due registi sfruttano a loro vantaggio per colorare di belle immagini un mondo interiore che invece rimane sempre sepolto dalle cianfrusaglie. Più che Youri, il film sa raccontare quindi degli spazi: Cité Gagarine diventa così un luogo di puro realismo magico, tra il documentaristico (con tanto di immagini d’archivio) e quel senso di meraviglia che permette di far accadere (e farci accettare) qualsiasi cosa.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Gagarine? Scrivetelo nei commenti!

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