Fury, la recensione (2)
Pensato per essere il film di guerra più duro di tutti Fury riesce nella sua impresa: mette a ferro e fuoco un piccolo plotone nella più futile di sempre
Con l'espediente più classico di tutti, l'arrivo di un novellino in una brigata di esperti, Fury imbastisce un racconto di guerra di rara precisione e meschinità, in cui davvero la morte è l'unica presenza che conta. Questo Mucchio Selvaggio di soldati su carroarmati, pronti a morire per niente, che sembra per un attimo riprendere fiato in un salotto francese abitato da sole donne (lo stupro è però sempre dietro l'angolo), si butta nel combattimento con un'ansia di decesso che è impressionante. Come se fossero convinti di meritare la morte la cercano senza sosta, come fosse una droga la desiderano ma con disperazione.
Non c'è dubbio che nella testa di David Ayer ci fosse l'intenzione di realizzare il film di guerra più sporco di tutti, il meno conciliante e il più fangoso e sanguinolento. Non sono solo i colpi sparati ma anche la pelle massacrata, i denti staccati e i volti strappati dalla faccia a costituire l'inferno della fine dell'uomo che è quest'ultimo scampolo di guerra, un conflitto che sembra aver perso anche qualsiasi ombra di ideale.
Non c'è dubbio che spesso il film esageri in velleità poetiche ma è anche innegabile come possieda una forza e una determinazione nel mettere in scena il suo inferno (nell'ultima parte dichiarato con le luci rosse) che impressionano. Con un esito finale molto più roseo di quanto non ci si potesse aspettare Fury si merita la medaglia al valore di film "memorabile", capace cioè di rimanere nella memoria e non andarsene più, dotato della rara capacità di innovare in un terreno noto e abusato come il cinema di guerra e di farlo nella direzione della concretezza.
Esageratamente meticoloso nella ricostruzione, nei mezzi, nei dettagli, nei tracker luminosi degli spari è però nei volti segnati che il film gioca la sua partita e centra tutto quel che poteva centrare.