Furiosa: a Mad Max Saga, la recensione | Cannes 77

George Miller l'ha rifatto. Furiosa è diverso da Fury Road (almeno per una parte) ma parla la stessa lingua del cinema ed è cinema gigante

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Furiosa: a Mad Max Saga, il nuovo film di George Miller presentato fuori concorso al festival di Cannes

Se Furiosa: a Mad Max Saga ha un problema siamo noi. Noi e le nostre dannate aspettative. Quando è arrivato Mad Max: Fury Road nessuno poteva immaginare che George Miller avrebbe reinventato la sua stessa saga, né tantomeno che avrebbe reinventato tutta una maniera di fare cinema spettacolare d’azione e raccontare un mondo intero con un uso parco di dialoghi. La sorpresa è stata parte dell’impatto incredibile di quel film capace di sbigottire ogni cinque minuti. Ora per Furiosa invece della sorpresa c’è l’aspettativa, il suo contrario. Deve essere a livello di quell’altro. Per questo in nessuna maniera potrà esserlo. Assodato questo, assodato cioè che non si può replicare l’impatto di Fury Road, quello che Furiosa mette sullo schermo è, ancora una volta, cinema gigantesco.

Fin da un incipit di fuga e inseguimento (e come ti sbagli!?), ma senza clamore, con poche persone coinvolte, un inseguimento in moto che sembra uscito dal western classico per come dura diversi giorni ed è pieno di strategia, il film ci ricorda la lingua di Miller, quella che con poche immagini, alcuni sguardi e associazioni di montaggio consente di capire cosa pensino i personaggi in relazione all’azione, cioè cosa vogliono fare e con quale fine. E sarà tutta così la vita di Furiosa, bambina rapita dalla tribù di Dementus (Hemsworth perfettamente integrato) e cresciuta da quella di Immortan Joe fingendosi maschio, finita a fare la guerriera della strada per lui con il desiderio latente di tornare alla sua terra d’origine (un Eden che nessuno sa esistere in mezzo al deserto, fatto di energia pulita e rigogliosa natura).

Diviso in tre capitoli di durata diversa (infanzia e rapimento, maturazione, vendetta) questo è un film in cui Anya Taylor-Joy entra in scena dopo un’ora, avrà un totale di 30 battute circa, e non riesce mai a essere il motore di tutto. Sono evidenti la dedizione e il lavoro ma non raggiunge quella tigna malvagia di Charlize Theron, quella cattiveria così credibile, è più dolce (il film un po’ lo richiede) e anche quando è rasata senza un braccio, somiglia più a Tetsuo di Akira, è più bambina che donna-guerriera. A compensare (e bene) ci pensa tutto ciò che le sta intorno. Anche nei primi due terzi, in cui l’azione è un po’ minore e c’è più politica del mondo futuro, l’impressione è di stare guardando un film muto che qualcuno ha dialogato. Ed è ancora una volta sbalorditivo come George Miller non abbia debiti con nessuno se non con se stesso per quello che fa. Forse solo Akira Kurosawa e la sua estrema rigorosa chiarezza nell'azione può essere considerata un'ispirazione evidente. Il resto è creazione originale.

Quando poi si entra nell’ultima lunga parte e riparte il passo indemoniato che animava Fury Road, non ce n’è per nessuno: Miller si conferma di nuovo il miglior narratore per gesti, azioni, movimenti di macchina e stacchi di montaggio che ci sia in giro. Non a caso, come il Max del film precedente, anche la Furiosa di questo è un non-personaggio, un puro pretesto narrativo fatto persona, con un carattere a senso unico che le impone di non morire, costi quel che costi. Miller rifiuta la solita pessima scrittura fatta di motivazioni banali e usurate a cui non crede nessuno, al suo posto accetta la natura funzionale dei personaggi nell’azione, il loro essere strumento di movimento. Solo in un momento, eccezionale, accenna a un’aspirazione sentimentale. Ma è proprio un attimo, subito frustrato. In questo film a parlare della brutalità umana e delle radici animali della nostra razza non sono mai i personaggi ma è tutto il mondo (soprattutto il design!).

E anche il finale evita la scontata vittoria della donna sull’uomo, per cercare qualcosa di radicalmente più profondo e universale: la vittoria dell’elemento femmineo in natura, della generazione di vita che prende il maschile e i suoi istinti di morte per trasformarli nell’ultima inquadratura in attrezzo di rigenerazione.

Questo film d’azione con pochissimi dialoghi è anche tra quelli scritti meglio di quest’anno.

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