Fur

Diane Arbus, insoddisfatta della vita agiata che conduce e del lavoro di assistente del marito fotografo, inizia a frequentare un gruppo di persone ai margini della società. Decisamente, non si apre bene il Festival del Cinema di Roma

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Avete mai avuto l’impressione che un film termini dove dovrebbe iniziare? Talvolta capita e Fur è proprio una pellicola di questo tipo, che dà l’impressione che le due ore di durata (lunghe, molto lunghe) sarebbero state perfette se sintetizzate nel primo atto. Ma non è solo questo il problema del film, che fallisce nel punto fondamentale della storia.
Diane Arbus, per chi non lo sapesse, è diventata famosa come la fotografa dei diseredati, dei reietti, insomma di quello spicchio di società che per le patinate riviste degli anni cinquanta e sessanta non esisteva.

Insomma, i suoi ritratti mostravano l’umanità in luoghi dove molti perbenisti pensavano non potesse essere presente. Ma il film di Steven Shainberg, in questo senso, è una delusione totale. Quello che vediamo è un’accozzaglia di freaks (la donna che fa tutto con i piedi perché non ha le braccia, il nano, il gigante, il travestito) senza personalità (a parte il personaggio di Lionel, ovviamente), che vengono mostrati non per quello che sono interiormente, ma soltanto per quello che rappresentano esteriormente. Come è possibile che in due ore di film, in cui non avvengono fatti clamorosi, non si riesca a tratteggiare un po’ meglio i propri personaggi?

D’altronde, l’impressione è che Steven Shainberg (già sopravvalutato per Secretary) non sia all’altezza del suo compito. Ci sarebbe voluto un Cronenberg dei bei tempi per mostrare la bellezza che si cela in questi personaggi ‘mutanti’ e magari anche il Gus Van Sant di Belli e dannati per mettere un po’ di calore nelle loro vicende (che sono invece di una freddezza esasperante, buona solo per soddisfare certi critici senza cuore). Basta pensare alla casa di Lionel: scenografie magnifiche (di Amy Danger, già impegnata in Secretary), ma regia troppo poco visionaria per rappresentare il fascino ambiguo della situazione. E non sarebbe stato male inserire dei brani più adatti alla situazione (avrei suggerito praticamente l’intera discografia di Antony and the Johnsons)

E quando il regista decide di dare un’accelerata a questo ritmo blando e anemico, lo fa con una scena madre troppo indulgente e soprattutto telefonatissima (nonché poco affine a quello che dovrebbe essere lo spirito della pellicola), che fa cadere nel ridicolo una pellicola che, fino a quel momento, si reggeva su un equilibrio delicato.
Non va meglio neanche con gli attori. Si faceva un gran parlare di Nicole Kidman come favorita per l’Oscar grazie a questo ruolo, ma dopo averla vista ho delle forti perplessità. Non si può recitare per la prima mezz’ora strabuzzando gli occhi e mostrando un campionario di espressioni già utilizzate nelle sue opere precedenti. Anche Robert Downey jr. fatica ad emergere (e non solo perché è sepolto sotto una valanga di peli), mentre è decisamente più interessante l’interpretazione trattenuta di Ty Burrell, nei panni del marito di Diane Arbus.

Insomma, un’occasione mancata, per il film (che prometteva molto di più) e per il Festival, che poteva scegliere meglio la sua pellicola d’apertura (la prima in assoluto, onore non da poco). E come prima impressione della manifestazione, qualche perplessità emerge subito. Va bene far entrare prima in sala i quotidianisti e i giornalisti televisivi (avviene dovunque), ma che senso ha riservare a loro i 300 posti più vicini allo schermo, cosa che francamente non mi è mai capitato di vedere? E qualcuno dovrebbe spiegare all’organizzazione che far pagare 2 euro per un cappuccino in piedi (roba che neanche a via Veneto), è un ottimo modo per farsi massacrare dalla stampa.
Speriamo che nei prossimi giorni questi (piccoli) inconvenienti vengano sistemati, sarebbe un peccato rovinare una grande manifestazione per dei dettagli…

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