Full Time, la recensione

Full Time di Eric Gravel ha una grande capacità spettacolare che si va presto a diluire in un tematismo tanto vasto quando confuso.

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La recensione di Full Time, dal 31 marzo al cinema

Come la sua protagonista Julie (Laure Calamy), Full Time di Eric Gravel è un film che va sempre di corsa. L’alta velocità è la sua brillante cifra stilistica e, allo stesso tempo, l’attraente (ma alla lunga estenuante) tirante narrativo: ogni giorno alle prime luci del mattino ci prepariamo infatti - con una elettrizzata preoccupazione - alla “maratona” di Julie, mamma single di due bambini che con svariati mezzi e molte sfortune (sullo sfondo, uno sciopero nazionale dei trasporti che blocca la città) raggiunge dal suo paesino di campagna l’hotel di lusso parigino dove lavora, ben al di sotto delle sue qualifiche professionali, come donna delle pulizie.

Da quando Julie ottiene il colloquio per una posizione lavorativa nel suo campo d’elezione (il marketing), la corsa di Full Time si frammenta ulteriormente, procedendo non solo dal paesino alla città ma nella città stessa, facendole rischiare - e qui sta il cuore del film - di ritrovarsi seriamente senza alcun lavoro nel caso in cui le cose vadano male: le conseguenze sarebbero talmente disastrose per Julie e i suoi figli che la sola idea che la cosa possa accadere ci mette in uno stato d’ansia continuo.

Da una parte Full Time ci attrae con un ritmo coinvolgente, facendoci incollare allo schermo nell’attesa precisa di ogni azione di Julie: Eric Gravel la riprende in modo ravvicinato (frontalmente e lateralmente) intensificando i dettagli drammatici (che possono essere un telefono che squilla o semplicemente uno sguardo preoccupato) con zoom che vanno a schiacciare Laure Calamy, le sue espressioni e i suoi tic nervosi in spazi sempre più ostili e posizioni sempre più scomode - il tutto ritmato da una musica incalzante e ossessiva che aiuta l'immersione nella storia.

Dall’altra però, quando finalmente arriva il weekend e la situazione si distende, Full Time pur appoggiandosi alla grande espressività minuziosa della Calamy - che anche quando sta immobile ci rimanda a uno stress eloquente - rivela quella fredda distanza che separa lo spettatore dal dramma personale di Julie. Quando il motore narrativo della corsa si spegne è allora come se si rivelasse quella latente scarsità di empatia che prima non notavamo perché distratti da altro: percepiamo la gravità della situazione di Julie, ne capiamo perfettamente la situazione, eppure è come se la preoccupazione e l'indignazione siano più rispetto a un problema generale (la condizione dei lavoratori precari) che a Julie stessa. La rivelazione di questo scarto starà, non a caso, proprio nel momento di maggiore catarsi del film,  quando un evento improvviso nei fatti darà un forte scossone alla storia ma, a livello emozionale, risulterà piuttosto scarso e inefficace.

Full Time ha quindi una grande capacità spettacolare che si va presto a diluire in un tematismo tanto vasto quanto confuso: pur esponendo, attraverso la parabola di Julie, la situazione di una classe medio-bassa frustrata, che lavora al di sotto delle sue capacità accettando compromessi degradanti (e che letteralmente spera nei miracoli), Full Time non offre alcuna proposta riflessiva sull’argomento, limitandosi a concludere un ritratto che, per quanto coinvolgente, non si espone mai in una reale critica ma si limita a mostrare.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Full Time? Scrivetelo nei commenti!

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