Fringe: la recensione della prima parte della quinta stagione

Il commento alla prima parte dell'ultima stagione dello show...

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Doubt, Faith, Wound, Anger, Trust: il misterioso alfabeto dei glifi e i termini da questo composti (per cinque stagioni, una delle principali chiavi di lettura di ogni singolo episodio di Fringe) abbandonano per quest'ultimo anno concetti più "concreti" per restituirci invece delle sensazioni molto forti. Dopo il primo, promettente, episodio, Fringe ha continuato, settimana dopo settimana, a costruire una storyline sempre più convincente e adesso, giunti al giro di boa del quinto e ultimo anno dello show, possiamo ammirare il tragitto percorso con la consapevolezza di trovarci di fronte alla migliore stagione vista finora.

Soltanto nella prospettiva di una fine ormai imminente Fringe è riuscito a operare con quella libertà che finora il timore per gli ascolti e la totale incertezza sul futuro gli avevano precluso. Senza monster-of-the-week a farla da padrone, ora lo show si appoggia totalmente sui suoi protagonisti e sulla loro esperienza come individui e come gruppo all'interno della realtà da incubo dominata dagli Osservatori. Sensazioni appunto, non completamente estranee a Peter, Walter e Olivia, ma mai così forti come in questo percorso di vendetta, riscatto e riconciliazione in cui nulla viene risparmiato e la scommessa degli autori viene rinnovata e raddoppiata di settimana in settimana.

Alla base del completo distacco dell'ultima stagione rispetto a quanto visto finora anche l'assoluto ribaltamento della filosofia alla base della serie: non più la Fringe science come elemento scatenante della narrazione e i nostri protagonisti come spettatori quasi passivi e costretti a subire una storia che affonda le sue radici fino al 1985, ma la stessa scienza di confine che, quasi a voler chiudere idealmente il cerchio e "ripagare" quanto causato, viene ora sfruttata da chi, negli anni e a costo di grandi sacrifici, si è guadagnato il diritto di utilizzarla per combattere un male superiore.

E l'universo degli Osservatori è veramente uno dei peggiori pericoli mai affrontati: perché è più subdolo, perché non si accontenta di limitare la libertà degli individui ma pretende di plasmarla, di sfruttarla, di portare dalla propria parte una larga parte dell'umanità che, in ultima analisi, ha compreso come "è più facile vivere sotto un regime che combatterlo". In un'architettura ideologica da 1984 è possibile anche ritrovare qualche lampo di umanità e di speranza, come la ristretta comunità presentata in The Recordist e che palesemente sembrerebbe richiamarsi al finale di Fahrenheit 451 di Bradbury nel suo tentativo di preservare la verità e la cultura. Ma è solo una piccola luce di speranza in un mondo grigio e triste del quale Etta, la figlia di Peter e Olivia, è stata testimone e vittima fino all'estremo sacrificio.

Sorprendente a questo proposito come la stessa Etta, perfettamente interpretata e caratterizzata, si sia alla fine rivelata anch'essa come uno strumento di crescita, una tappa fondamentale nel percorso che in poche puntate ci porterà allo scontro finale tra Peter e Windmark. Il primo sembra avere rinunciato ormai, letteralmente, alla propria umanità, mettendosi al servizio di un ideale di vendetta e distruzione che potrebbe finire per divorare lui stesso. Finora Joshua Jackson era stato l'unico, nel trio principale, a non doversi cimentare con un'interpretazione "diversa" del proprio personaggio, finendo inevitabilmente per essere oscurato dal talento eccezionale di Anna Torv e John Noble. Fatta eccezione per un eccessivo adagiarsi sulla mitologia di Matrix (anche con un combattimento non esattamente memorabile), la prova attoriale è stata ampiamente superata.

Sulle note di The man who sold the world di David Bowie (non è la prima "apparizione" nello show del cantante, il cui vero nome è David Robert Jones) Fringe si congeda dagli spettatori fino al prossimo 7 dicembre. Sarà una lunga attesa...

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