Fremont, la recensione

Fremont si scava una sua nicchia intimista nel panorama indie trovando nei personaggi la via d'accesso al tema della diaspora afgana negli Usa

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La recensione di Fremont, il nuovo film diretto da Babak Jalali, al cinema dal 26 giugno.

Ci sono diverse cose in Fremont che a seconda del punto di vista potrebbero non convincere: stilisticamente la bravura nel rimescolare soluzioni da cinema indie rischia di passare per assenza di personalità, lasciando a chiedersi (fra un’inquadratura frontale alla Wes Anderson e un eco jarmuschiano) cosa abbia da dire di nuovo Babak Jalali. E politicamente si potrebbe accusarlo di vedere in modo troppo consolatorio e Usa-centrico la vicenda di chi emigra dall’Afghanistan dei Talebani. Entrambi gli argomenti hanno senso, ma è come se bypassassero il film. Che dello stile si interessa solo nella misura in cui serve a rafforzare il contenuto emotivo. E a partire da quello riesce a essere politico senza dover passare per le tappe del cinema “impegnato”.

Fremont non è (nè gli interessa essere) un film sulle responsabilità americane in Afghanistan. Fedele al suo cinema, che lavora sui temi delle minoranze e delle sottoculture, Jalali racconta invece l’esperienza della diaspora, del trovarsi stranieri in una terra che ci accoglie ma che non sentiamo nostra. Lo fa tramite il personaggio di Donya (Anaita Wali Zada) che in Afghanistan era traduttrice per l’esercito americano e ora vive a Fremont, California. Apparentemente ben inserita (lavora in una fabbrica di biscotti della fortuna) Donya prova una malinconia che non riesce a spiegare, almeno finché il suo terapista le consiglia di tirare fuori i suoi pensieri scrivendoli sui biglietti che mette dentro i biscotti.

Quello che segue non è solo il ritratto di una persona che ha subìto l’esperienza della diaspora, ma una specie di seduta di analisi collettiva della società multietnica americana. “Cercasi Sogno disperatamente” scrive Donya in un biglietto, svelando come Fremont sia prima di tutto un film sull’America come luogo (storico e simbolico) dove convergono le speranze di milioni di immigrati in cerca di una nuova identità. Il film racconta benissimo la condizione intermedia di chi americano ancora non è, ma non è nemmeno più afgano, cinese ecc. Lo stile rigido, fatto di piani frontali e laterali come nei film di Anderson, incapsula la protagonista e gli altri personaggi in una specie di limbo esistenziale da cui non sembra esserci via di fuga.

La capacità di raccontare il presente di Fremont è quella di un film che parte dal “micro”, dalla psicologia e dalla nevrosi quotidiana, per poi lasciare intuire che nelle vicende apparentemente slegate dei suoi personaggi si può leggere qualcosa di più ampio. I vezzi di regia, i personaggi assurdi (lo psichiatra che legge Zanna bianca) gli si perdonano facilmente perché non cadono nel vuoto ma contribuiscono a dipingere la realtà di Donya, personaggio a cui si crede sempre nel suo continuo scivolare fra quotidianità e presa di coscienza dell’insensatezza del mondo in cui si muove. Un mosaico in cui si affacciano momenti di commozione – la scena del karaoke – black humour, e ricerca di una via d’uscita, di una risposta alla domanda se il Sogno sia ancora possibile..

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