Freedom on Fire: Ukraine's Fight For Freedom, la recensione
Freedom on Fire: Ukraine's Fight For Freedom è un documentario militante e sul posto dal primo minuto della guerra in Ucraina
La recensione di Freedom on Fire: Ukraine’s Fight for Freedom, presentato al Festival di Venezia
Freedom on Fire è invece ancora più attuale. Montato fino a poco prima della sua presentazione in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia, è un collage di immagini sul campo di battaglia. Un breve accenno storico all’inizio e poi quasi due ore di resoconti dl fronte. Un cinegiornale dell’epoca moderna, animato da una costante musica enfatica e dalla narrazione di un popolo piegato, ma resiliente. Ci sono immagini terribili già viste senza censure sui social network e, le meno crude, sui telegiornali nazionali. L’assemblaggio fatto aumenta i punti di vista sulle fasi dell’invasione. Racconta i bombardamenti attraverso le lenti dei cellulari, che permettono una precisione incredibile nel mostrare gli eventi.
Nessuna guerra è stata così tanto documentata, eppure gran parte di queste testimonianze sono frammenti di video o servizi di telegiornale a fatti avvenuti. L’operazione di Evgeny Afineevsky, data la sua natura di documentario quasi in tempo reale, invecchierà presto. Da una parte per la retorica con cui è intriso, che rispecchia il sentimento del mese di guerra che racconta. All’inizio c’è infatti lo sgomento, mentre al centro del documentario un senso di rivalsa e di miracolo di una nazione che si sente una Davide contro la gigantesca Golia. Solo nel finale, più recente e vicino ad oggi, il trauma viene rielaborato cambiando le parole utilizzate.
Nella seconda parte invece Freedom on Fire ha il coraggio di diventare cinematograficamente molto più interessante. Smette di essere un documentario “utile” per convincere da che parte stare in quello specifico conflitto, e si trasforma in un’ agghiacciante testimonianza di cosa significhi vivere nell’apocalisse. In quel momento inizia un altro film, molto più interessante ed efficace. Le interviste alle persone descrivono quel mondo sconvolto molto meglio delle immagini, che superano il documentario per diventare quasi spettacolarizzazione del dramma.
Un neonato, cresciuto per metà della sua esistenza rifugiato dentro l’acciaieria, non si sveglia quando il letto trema e ci sono i rumori forti, perché è così che ha conosciuto il mondo. Bambini in età da scuole elementari integrano la guerra nella loro fantasia sperando che un dinosauro “alto trenta metri” metta fine al conflitto. Un uomo gira in bici tra le rovine sventolando una bandiera sgualcita dell’Ucraina. “Non l’ho fatto io, l’ho trovata così”, dice. Descrive la sua casa e il suo quartiere, ormai distrutti, come una guida turistica. Le parole che pronuncia sono distaccate e freddamente razionali, forse come unico modo per accettare quello che vede. “ci sarà da scavare qui, probabilmente ci saranno cadaveri, ma non ne sento l’odore”. Verso la cinepresa gli uomini, con macabro sarcasmo, indicano una mano mozzata abbandonata sui rottami. Sono piccoli momenti di raggelante verità. Ben più potenti di qualsiasi propaganda.
Freedom on Fire ha senso di esistere fuori dalla contingenza quando riesce a concentrarsi più sulle persone che sui fatti. Sebbene la verità sia contestata e messa in discussione più che mai dalla propaganda reale. L’operazione di debunking del documentario è la stessa fatta da decine di testate giornalistiche. Non è solo questo il compito di un cineasta che può stare sul posto cercando un altro tipo di verità che non trova spazio nei libri di storia: quella soggettiva ed emotiva delle persone.
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