Free Guy, la recensione
Per la prima volta i videogiochi sono metafora della creatività. Free Guy racconta e critica il cinema tramite i videogame, la recensione
La Disney non fa in tempo a portare al cinema una storia originale ad alto budget (anche se tramite i 20th Century Studios), che questa contiene una critica a chi non gira storie originali ma indugia sui sequel. Cioè, per dirlo in altre parole, in Free Guy, film di una major che ha impostato una fetta importantissima della propria produzione su una rete di sequel, spin-off, prequel e reboot, viene detto a chiare lettere che il sequel come modalità produttiva è la morte della creatività (e a sceneggiare c’è Zack Penn, mestierante di tanti film Marvel e di Ready Player One!).
Questa è la parte di Free Guy che si svolge nel nostro mondo, cioè due programmatori che avevano creato un gioco indipendente molto promettente sono stati separati dal commercio, la grande casa ha comprato il titolo e poi lo ha congelato, uno dei due adesso lavora al loro grande gioco, l’altra no, cerca in tutti i modi di trovare le prove che sotto quel megavideogame che tutto il mondo gioca ci sia il codice sorgente del loro. L’altra metà di Free Guy invece si svolge nel videogame, dove un personaggio non giocabile comincia a prendere coscienza di sé e lo fa come in Essi vivono: inforca un paio di occhiali e vede il suo mondo pieno di scritte, power-up, bonus, indicazioni e sovrimpressioni. Scopre cioè che c’è qualcuno che comanda il suo mondo di cui non si era accorto, che ciò che gli hanno detto non era vero e, in parole povere, è schiavo di una dittatura. Con gli occhiali si emancipa dal suo ruolo subalterno e riesce accedere a migliorie e svolte cui hanno accesso solo i giocatori, solo che le usa per fare del bene alla sua comunità e non per la violenza. Diventa un caso mondiale.
Proprio questa maniera di sfruttare le nostre consapevolezze (in un film che sembra parlare a pochi, pieno com’è di gergo da videogiocatori) e il modo in cui ad un certo punto tira in ballo le altre proprietà intellettuali Disney (che noi sappiamo fare tutte parte della medesima famiglia), unito infine ad un associazionismo da lavoratori molto tradizionale, costituiscono gli angoli che rendono Free Guy appuntito. Non passa sopra i consueti svolgimenti, non affronta gli stessi temi né sceglie i soliti attori (nonostante non sia una novità Reynolds rimane una scelta particolare, vista la sua malleabilità) per finire a fare una morale non proprio uguale alle solite.
Nel riconoscere che non siano e non debbano essere una cosa sola, di fatto Free Guy elegge i videogame a rappresentati dell’industria creativa, e così è libero di parlare di noi, cioè i giocatori/spettatori, senza sconti. Quella degli umani è una galleria di persone così orribili che non ci vuole molto a capire che anche le intelligenze artificiali dei videogiochi sono più attive, sveglie e vivaci di loro. Loro infatti capiscono subito che uniti ci si può ribellare.