Frankenstein (Royal National Theatre 2011) - La recensione

L'adattamento teatrale del romanzo, portato in scena con inedita efficacia da Danny Boyle nel 2011, rivive al cinema per un giorno solo in tutto il suo splendore attoriale.

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La difficoltà nell'offrire una recensione attendibile di uno spettacolo teatrale è già di per sé affare gravoso; figuriamoci poi dover parlare della ripresa video di uno spettacolo teatrale, laddove rischia di spezzarsi l'incanto della condivisione di luogo e tempo con i personaggi che si muovono sul palcoscenico. Ciò che sprizza fuori da uno spettacolo di prosa è una materia impalpabile e difficile da spiegare a chi non sia assiduo frequentatore di questi spazi paradossali dove, sera dopo sera, la medesima rappresentazione viene ripetuta, sempre uguale e comunque sempre immensamente diversa da sé stessa. È energia allo stato puro, vita che fuoriesce dal palco con la violenza con cui il sangue schizzerebbe da un'arteria recisa.

Riprendere uno spettacolo teatrale significa, in qualche modo, uccidere la sua stessa natura per farlo diventare qualcos'altro. Nati dalla stessa radice, cinema e teatro si sono divisi fino a diventare opposti, il primo fissando eternamente un'unica, immutabile performance, l'altro ostinandosi a mettere in scena con una ritualità quasi sacrale gli stessi gesti davanti al pubblico vivo, reale, che ne coglie appieno ogni sfumatura ed ogni irripetibile errore.

La necessaria premessa giustifica la prolissità di una recensione che, nelle intenzioni, vorrebbe restituire l'emozione provata di fronte alla ripresa di uno spettacolo che, dal vivo, dev'essere stato memorabile: il Frankenstein di Nick Dear, tratto dall'omonima pietra miliare di Mary Shelley, messo in scena da Danny Boyle presso il Royal National Theatre di Londra nel 2011 con Benedict Cumberbatch e Johnny Lee Miller come protagonisti. Disponibile solo per un giorno nelle sale del circuito The Space, c'è da sperare che l'entusiastica partecipazione del pubblico spinga quanto prima a programmare un'altra replica della proiezione (inficiata, va detto, dal pigolio ininterrotto di una frotta di fanciulle in preda a un evidente disordine ormonale, accorse in sala solo per potersi infiammare di fronte al - per carità, pregevolissimo - fondoschiena nudo di Cumberbatch).

Se pensate di aver visto abbastanza Frankenstein in vita vostra, vi sbagliate di grosso. Quello di Boyle è forse l'adattamento più fedele al rivoluzionario romanzo della giovane Shelley, che a diciotto anni concepì la tragica e orrorifica parabola di Victor Frankenstein, giovane e brillante studente svizzero che, grazie alle sue conoscenze di elettrochimica, tenta l'impossibile: ridare la vita alla carne ormai inerte di un defunto. Il risultato, assemblaggio grottesco di più cadaveri, è la Creatura, figlio subito rinnegato che diventa ben presto la nemesi di Frankenstein, perseguitandolo in un'odissea di amore-odio che porterà entrambi a un futuro di catastrofe.

Il testo di Dear è perfetto, venato di sottile ironia e mirabilmente caratterizzato da sfumature politiche che non snaturano vanamente il testo per piegarlo a un vessillo improvvisato; da parte sua, la regia di Boyle risulta talmente ricca di idee visive emozionanti e raffinate da non impallidire nemmeno attraverso l'occhio freddo della macchina da presa. La vivida potenza delle fiamme, della terra e della nebbia arriva dritta al pubblico, annullando la parete trasparente dello schermo; e sembra quasi di poter sentire la pioggia che cade sul volto della Creatura, appena nata e ancora ignara del mondo.

La solida e sapiente regia di Boyle rifugge da ogni autocompiacimento (rischio da cui l'autore inglese non è stato immune nei suoi film), supportata da una scenografia impressionante per la sua essenziale funzionalità, lontana dal fastidioso concettualismo intellettuale di tanti registucoli contemporanei, che finiscono per essere gli unici ad aver capito cosa intendessero dire al pubblico. Il realismo filologico a teatro è stato ucciso dall'avvento del cinema, intendiamoci: ma le sintesi architettoniche fortemente materiche dello spettacolo di Boyle dimostrano senza ombra di dubbio che si può essere al passo con i tempi senza per forza arroccarsi nell'incomprensibilità.

Ma le colonne portanti di questo straziante intreccio tra vita e morte sono loro, i due protagonisti, che si sono alternati ogni sera i ruoli in un'altalena che ha dell'incredibile, considerando l'immensa difficoltà e il carattere recitativamente antitetico delle due parti. Impegnati in questo duello fisico e verbale senza esclusione di colpi, Boyle ha piazzato sulla scena due tra i migliori attori inglesi della generazione (almeno all'epoca) under 40: Johnny Lee Miller e Benedict Cumberbatch. Non sappiamo se per sorte o per scelta, ma la versione per lo schermo vede il primo nel ruolo di Victor e il secondo nel ruolo della Creatura.

Non c'è spazio per il dubbio, le performance dei due attori sono eccezionali. Ed è impossibile, assolutamente impossibile, decretare un vincitore di questa sfida, che finisce con un ex aequo che scalda il cuore e fa scendere anche qualche lacrima. Coadiuvati da un comunque ottimo cast di comprimari, Cumberbatch e Miller risplendono di luce propria nelle scene in cui sono soli e creano una tensione elettrica nei duetti, quasi a riproporre con la vivacità della loro recitazione la stessa energia voltaica che ha dato a Victor la possibilità di far nascere la Creatura.

La Creatura, già: lo spettacolo si apre con un intenso, lunghissimo assolo rantolante (e attorialmente devastante) del mostro appena (ri)nato, che si contorce sul palco e già dal primo alito profila ciò che poi dirà al suo creatore: ogni vita è degna di rispetto, e lui quella vita che gli è stata innaturalmente affibbiata, strappandola dagli artigli gelidi e putridi della morte, la difenderà fino allo strenuo delle proprie forze. È il punto di vista di questo essere ingenuo (figlio spirituale delle teorie di Rousseau) e progressivamente educato alla crudeltà e all'umiliazione del genere umano che ci conduce, ignaro Caronte, fino al dottor Frankenstein e al suo Prometeo moderno: e le domande che la Creatura si pone sono le stesse che si pone il suo bizzarro padre, che forse si pose la stessa Mary Shelley quando mise mano al suo capolavoro; le stesse, infine, che anche noi spettatori del ventunesimo secolo continuiamo a porci: per cosa viviamo? per un capriccio di Dio? per un capriccio dell'uomo che ci ha generati? non meritiamo forse tutti di cercare un senso più alto a questo nostro effimero soggiorno sulla terra?

Le domande restano senza risposta, sospese come sospeso resta il destino dei due indimenticabili protagonisti di questa sofferta, struggente storia divisa tra la sete di vendetta e quella d'affetto. Ed è proprio nello splendido scambio di battute dell'ultima scena dello spettacolo che la duplice componente del rapporto tra i due protagonisti viene a galla in tutto il suo mastodontico fragore, eternato nella nebbia di un futuro incerto e inconoscibile. Boyle vince con questo la sua difficile scommessa, riuscendo a dimostrare, senza l'ombra di un cliché, come amore e odio possano convivere per sempre, nutrendosi l'uno dell'altro in un ciclo infinito quanto quello della vita e della morte.

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