Frankenstein, la recensione

La versione di Frankenstein di cui meno avevamo bisogno in assoluto, quella edonista che sembra uscita direttamente dagli anni '80

Critico e giornalista cinematografico


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Per caso avete sempre pensato che il problema con la storia di Frankenstein fosse che la creatura è troppo brutta? Il nuovo Frankenstein di Bernard Rose fa per voi.

Il regista che ha iniziato con Playboy gira un adattamento contemporaneo del mito classico insistendo sui luoghi comuni delle sue trasposizioni cinematografiche (il non vedente, la bambina in riva al lago) e insistendo molto sull’esigenza della creatura di una donna come lui (questa però viene dal romanzo). Tutto flagellato non tanto dalla natura mostruosa del suo essere venuto al mondo, né da un cervello deviante inserito nel suo corpo o sul titanismo dei suoi creatori, ma dalla sua bruttezza.

Almeno da metà del film in poi il problema principale del mostro è la sua bruttezza (che poi in buona sostanza è un bello con la pelle rovinata) e la sua aspirazione non è essere accettato ma essere attraente. Motivo per il quale tornerà dai suoi creatori.

Anche prima di questa svolta edonistica questo film di Frankenstein ha però già avuto ampiamente modo di dimostrare la sua inadeguatezza. Fotografato con un aggiornamento della classica estetica patinata, con colori molto saturi e una predilezione tutta speciale per gli azzurri e il rosso esagerato del sangue (una cosa non si può dire, anche considerato il passato di Bernard Rose: che non sia efferato), il terzo Frankenstein negli ultimi due anni (tra quelli ad “alto” budget c’è anche I, Frankenstein, la versione avventurosa con Aaron Eckhart, e quella steampunk con Daniel Radcliffe, Victor Frankenstein) non aggiunge niente.

Non è di povertà tecnica che si parla, ovviamente, ma di povertà narrativa. Questo film ha le idee molto chiare ma sono quanto di meno suggestivo ed interessante possa esistere in materia. Soprattutto realizzare un Frankenstein come questo, che nega tutti i conflitti originali e li sostituisce con altri il cui potenziale devastante è quasi nullo, non ha senso. Riportare in vita una mitologia, rimettere in scena una storia può essere un’operazione sensata solo se si vogliono utilizzare le sue dialettiche per i propri fini, come faceva Tim Burton con il primo Frankenweenie, trasformando un cane di una villetta a schiera nella creatura e il vicinato borghese nell’orrendo paesino.

Invece questo rimasticamento persegue obiettivi ridicoli e ha più che altro il sapore del tentativo di cavalcare un nome noto, che va bene, sia chiaro, basta che poi dietro ci sia la capacità, almeno, di creare un film onesto e godibile.

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