France, la recensione | Cannes 74
Una reporter spietata che si chiama France è l'antenna con cui Bruno Dumont vorrebbe spiegare il rapporto tra finzione e realtà
Sì chiama emblematicamente France la giornalista spietata e cinica al centro dell’omonimo film di Bruno Dumont, anchorwoman di successo che fa reportage dai luoghi di guerra e poi intervista in studio esperti tenendogli testa, con il volto sempre a favor di camera, che flirta con Macron e poi quando si mette il casco blu ONU manovra i combattenti per la libertà orchestrando piccole messe in scena drammatiche per dare più forza ai suoi servizi. Accanto a lei c’è sempre la sua agente, una donna ancora peggiore, yes woman ben più cinica, più spietata e più comica. Perché con France Bruno Dumont fa sempre un po’ di commedia, come predilige negli ultimi anni, ma contaminandola con una vena molto seria e vagamente moralista.
Tutto France oscilla tra la commedia cinica e il dramma serio, cercando di unire così vita privata e vita pubblica del personaggio protagonista. Ci vorrebbe una grande attrice per gestire un personaggio simile e farci qualcosa di importante. Non Lea Seydoux. Ci vorrebbe cioè qualcuno in grado di capire il personaggio e utilizzare l’interpretazione per guidare lo spettatore. Gli eventi in sé infatti sono presentati in sequenza e la maturazione di qualcosa dentro al personaggio è ciò che conta, la maniera in cui di momento in momento arrivi a sentirsi in una certa maniera e quindi faccia ragionare lo spettatore sul legame tra quel che fa e quel che vive. Invece Lea Seydoux interpreta ogni singola scena senza legarle. Come se ogni volta non sapesse cosa accadrà poi.
È insomma evidente che ci sia in France la possibilità per un buon film ma questo tuttavia non arriva mai, soffocato da una messa in scena spesso sotto il livello accettabile per sofisticazione e da un’interpretazione mai cruciale.