Fortuna, la recensione
C'è da stimare Fortuna per come tenta di smarcarsi dal solito cinema realista campano, meno per gli esiti di questo tentativo
La dote migliore di Fortuna è il fatto di saper stare sulle spalle del cinema che l’ha preceduto e non di mischiarsi ad esso, finendo per essere indistinguibile tra pari. Per raccontare una storia di cronaca parte dalla messa in scena tradizionale, quella naturalista appiccicata ai dintorni campani da cinema e televisione degli ultimi anni. Si siede insomma sui mille racconti di quelle zone tra abusi e crimine, tra disagi e assenza dello stato e cerca di realizzare qualcosa di proprio. Come se fosse consapevole di quanto ambienti, storie e dinamiche siano stati abusati e saturati dalla produzione culturale.
È semmai la maniera in cui sceglie di farlo a lasciare più perplessi.
La storia è quella di Fortuna, una bambina morta cadendo dall’ultimo piano di un palazzo; non serve sapere molto altro per il film. La morte e la sua negazione sono presenti da subito, dalla prima scena in cui con molta serenità una bambina vola via da un calcinculo e si schianta sull’asfalto senza riportare danni. Tutto il film è un presagio di morte in cui la fantasia alimenta la lettura della realtà, cioè tramite le figure fantastiche e le identità alternative di Fortuna e di chi la circonda capiamo come sia davvero la quotidianità che la circonda e vive.
L’intento è manipolare fatti, eventi e situazioni non semplici e molto dure in modo che sia possibile sia affrontarle direttamente che evitare l’effetto shock o la speculazione sulla tragedia, tuttavia l’impresa non riesce e il buon capitale accumulato scegliendo di partire dalla messa in scena naturalista per andare altrove è sprecato inseguendo un’idea di cinema che si rivela confusa, impalpabile e più ermetica del necessario.