Florence, la recensione

Tra rispetto e repulsione Florence racconta, non senza qualche esagerazione buonista, una storia con cui empatizza oltre ogni aspettativa

Critico e giornalista cinematografico


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È uno sguardo stranissimo quello con il quale Stephen Frears si mette ad osservare (e quindi mettere in scena) la storia di Florence Foster Jenkins, dama ricchissima della New York di metà novecento, melomane fissata con un’idea di arte, di canto e di opera che prevede anche lei stessa nell’equazione. Il fascino di questa donna è subito evidente, una mecenate al tempo stesso megalomane e generosa, realmente appassionata ma anche realmente vittima di una società accondiscendente per motivi venali, potentissima e vittimissima (aveva la sifilide e quindi, in un certo senso, i giorni contati). Eppure alla prevedibile e necessaria critica al sistema di falsità e menzogne che circonda Florence Foster Jenkins e le sue esibizioni, corrisponde anche un’ammirazione per una società tanto fasulla quanto dignitosa.

Frears ha già dimostrato di essere in grado di conciliare le proprie idee fieramente laburiste con una grande ammirazione per la regina in The Queen, qui sembra procedere sullo stesso binario con una gran voglia di mettere in scena la parte migliore di un mondo che trabocca di menzogne. Arturo Toscanini come il direttore della Metropolitan Opera, tutti vengono dalla signora Jenkins a renderle omaggio per la sua voce e a chiedere un obolo per la propria musica, anche il marito per interesse, Hugh Grant (anch'egli con velleità artistiche che fatica a mettere da parte), non è troppo lontano da questa prospettiva. Tuttavia ad interpretare un ruolo come fanno sia lui che il pianista assoldato per accompagnarla nelle sue lezioni di canto e poi nelle esibizioni, si finisce per crederci realmente.

Così lentamente Florence da che è un film che racconta un fatto strano e ridicolo, passa ad essere un film sulla malattia che è il recitare una parte, su quanto fingere implichi una comprensione tale di ciò che si simula da finire per provare realmente i sentimenti che dovrebbero essere finti.
In questo film dall’ironia così garbata che sembra sarebbe potuto piacere alla stessa buona società novecentesca che rappresenta, in cui non si fa economia di buoni sentimenti, salvifiche prese di coscienza e colpi di scena sentimentali (il contenuto della borsa che Florence porta sempre con sé rivela la consapevolezza della sua fragilità), c’è anche il miglior racconto di un certo modo di guardare all’arte (musica, cinema, letteratura, teatro…), uno sguardo naive e ingenuo, molto succube e per certi versi amatoriale e rivolto più al passato che al presente, ma nondimeno sincero. Non è difficile vedere un parallelo tra la maniera in cui Florence ama la musica e quello in cui molti amano il cinema, innamorati più dell’idea di esso (il bianco e nero, il rumore del proiettore, le emozioni sullo schermo, divi anni ‘50 e tutto il corollario di luoghi comuni) che dei singoli film nel concreto. L’arte come macchina per la formazione di un immaginario sentimentale concreto per quanto poverello. E invece che esserne respinto Frears lo abbraccia senza se e senza ma.

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