Flee, la recensione

Flee di Jonas Poher Rasmussen è un film straordinario, in cui l'animazione e lo storytelling non si appoggiano al dolore ma lo mettono in scena in tutti i sensi, offrendo un ragionamento linguistico e non solo tematico sulla dignità e l'identità di chi è costretto a fuggire.

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La recensione di Flee, al cinema dal 10 marzo

La condizione di profugo non ti abbandona mai. Anche quando sei al sicuro, anche quando hai una vita apparentemente normale. Dentro di te c’è sempre un malessere che condiziona le tue relazioni con gli altri e, chiaramente, con te stesso. Questa verità è devastante: lo è perché riguarda nel profondo la dignità di chi, dopo essere passato dal dolore, ne é in qualche modo destinato per sempre. Partendo proprio da qui Flee di Jonas Poher Rasmussen affronta con uno storytelling straordinario - per costruzione ed immagini - questa realtà e, senza paura ma con una vitalità spiazzante, dipinge con gli strumenti del documentario animato l’affresco di una vita a suo modo universale: quella di Amin.

Una storia vera raccontata è sempre una storia costruita e costruibile. Questo principio non vale solo per com’è fatto formalmente Flee, una lunga intervista tra il documentarista danese e l’afgano Amin (il suo migliore amico) che viene disegnata nel suo svolgersi, con la sostituzione dei disegni all’immagine reale e le immagini d’archivio a intermezzarli. Il principio di realtà costantemente costruita vale anche per la vita stessa di Amin.

Nato a Kabul e scappato per tutta la sua infanzia ed adolescenza dalla guerra assieme a sua madre e alle sue sorelle, tentando la fuga dalla Russia verso l’Occidente, Amin racconta ora nel presente del film un rimosso gigantesco, ricostruendo passo per passo com’è arrivato a Copenhagen. Il dolore Flee lo comunica in buona parte con gli eventi che la storia offre alla visione uno dopo l’altro: la loro carica emotiva è innegabile e il modo in cui vengono resi da questa animazione abbozzata e minimale è evocativo, elegante, pieno di dettagli strazianti. Una figurina, un paio di scarpe, una collana sono qui figure sineddotiche che parlano da sé. Per quanto il visivo sia qui cruciale e non si limiti al mostrare e basta (e già così sarebbe fortissimo) c’è però in Flee qualcosa in più. La particolarità della storia di Amin è che diversamente da tante storie simili ragiona ad un livello più profondo sull’importanza del racconto - quello che i profughi fanno di sé stessi e che noi comunichiamo, o che banalmente conosciamo - intrecciando la dignità di Amin con quella, appunto, della sua storia, tra una realtà rimossa e un’imitazione falsata ma necessaria.

Di questo “gioco” narrativo che Flee offre sulla vicenda di Amin non è giusto svelare di più perché è parte della sua efficacia comunicativa. Quello che però è importante sottolineare è che il film è straordinario proprio in questo senso, perché non si appoggia al dolore (che pure definisce la storia) ma lo mette in scena in tutti i sensi, offrendo un ragionamento linguistico e non solo tematico. La voce di Amin ci accompagna per tutto il tempo, e a partire dalla primissima domanda “cosa vuol dire per te la parola casa?” Flee esplora il significato di posto sicuro, racchiudendo la ricerca continua di Amin di un’identità (anche sessuale: rivelare di essere gay per lui poteva significare l’allontanamento dalla famiglia, l’unica cosa che aveva) in un cerchio narrativo dove le domande alla fine trovano delle risposte - per quanto incerte.

In tutto questo Jonas Poher Rasmussen trova lo spazio per raccontare una storia di crescita, in un coming-of-age forse mancato, forse solo dal tempo incerto, dove sono ancora le immagini che ne definiscono il senso: un walkman condiviso con un coetaneo in un furgone che sta superando un confine comunica così una tenerezza speciale che va, ancora, oltre quello che vediamo.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Flee? Scrivetelo nei commenti!

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