Flamin' Hot, la recensione

Esordio alla regia di Eva Longoria, Flamin’ Hot è esattamente quel tipo di film: un comfort movie motivazionale che prende una storia vera di realizzazione personale, di imprenditoria visionaria in un mercato capitalista, e ci ricama sopra con gran mestiere e un ottimismo travolgente l’etica pulita del self-made man.

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La recensione di Flamin’ Hot, disponibile su Disney+ dal 9 giugno

Hollywood adora le storie di successo. Ama sentirle, ama parlarne, e soprattutto ama farne dei film sopra che siano altrettanto di successo. Esordio alla regia di Eva Longoria, Flamin’ Hot è esattamente quel tipo di film: un comfort movie motivazionale che prende una storia vera di realizzazione personale, di imprenditoria visionaria in un mercato capitalista, e ci ricama sopra con gran mestiere e un ottimismo travolgente l’etica pulita del self-made man, del “believe in your dreams”.

Tratto dalla biografia di Richard Montañez “A Boy, a Burrito and a Cookie: From Janitor to Executive”, Flamin’ Hot è la storia vera e molto romanzata dell’imprenditore messicano (qui Jesse Garcia) che da addetto alle pulizie di una fabbrica della Frito-Lay in California è diventato Executive dell’azienda grazie alla visionaria idea di aprirsi per primo al mercato latino con snack piccanti (Hot Cheetos, Hot Doritos, Hot Fritos…).

Dal passato criminale di Richard al momento del “colpo di genio”, passando per le difficoltà economiche degli anni di Reagan, Flamin’ Hot passa in rassegna con ironia e leggerezza (la voce narrante di Richard è una guida continua alla lettura degli eventi) la vita lavorativa di questo personaggio. Il film ci mostra chiaramente come Richard abbia dovuto affrontare razzismo e pregiudizi, tuttavia questi aspetti una volta mostrati sono messi molto in secondo piano: l’obiettivo del film è spingere a mille sul pedale del carisma, mostrare quanto lodevole sia la tenacia di questo personaggio, e infine portare in gloria l’idea di sano corporativismo e di duro e onesto lavoro. Un’edulcorazione che per quanto palese non è affatto fastidiosa, non sa di approssimazione ma ha il sapore dell’ottimismo da tv commercial, di un mondo dei sogni colorato e zuccheroso al giusto limite del retorico: un tono piacevolmente confortevole.

Flamin’ Hot riesce a trovare questa quadra retorica grazie alla bontà della scrittura e alla scorrevolezza della regia. Il modo in cui il film, infatti delinea chiaramente il personaggio è perfettamente centrato, semplice ma di grande impatto e ruota tutto intorno al rapporto tra appartenenza comunitaria - dei latini, ma in senso vasto anche della classe operaia - e rappresentazione commerciale: il rivedere i propri gusti su uno scaffale, e quindi la propria comunità rappresentata. La scrittura è ottima ed Eva Longoria, visivamente, la segue a gran ritmo, senza fronzoli e con un montaggio accattivante (giusto ogni tanto si diverte con piccole scene “what if”).

Ciò che conquista di Flamin’ Hot non è quindi la credibilità della storia di Richard (molto romanzata), quanto il modo in cui il film sa trasmettere l’ambizione e i sogni del protagonista attraverso la desiderabilità di un prodotto e ciò che simbolicamente significa: un pacchetto di patatine piccanti, rosse e luccicanti, messe in fila su uno scaffale. Se questa non è la perfetta quintessenza del capitalismo Hollywoodiano, non sappiamo cosa possa esserlo.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Flamin' Hot? Scrivetelo nei commenti!

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