First Love, la recensione

Un film dalla trama semplicissima che tramite il montaggio e la recitazione diventa uno studio nei sentimenti e nelle piccole decisioni

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di First Love, il film disponibile dal 19 agosto su Prime Video

Montare i film di Terrence Malick ti segna. O almeno ha segnato A. J. Edwards, che prima di esordire come sceneggiatore e regista di tre film ha lavorato al montaggio di Knight Of Cups e To The Wonder. First Love, per l’appunto il suo terzo film, è un gioiello di tempi, ritmi e stasi che in più punti ricordano l’arte di giustapporre momenti diversi dei film di Malick, scenette anche di pochi secondi, per affiancare due sensazioni insieme (ma con una trama nel suo caso). First Love è tutto realizzato tramite il montaggio, si poggia su un canovaccio molto convenzionale e vecchio che proprio lavorando di tagli e tempi diventa nuovo, significativo e pieno di elementi mai raccontati prima da esplorare. Di fatto First Love trova in una storia classica qualcosa di inesplorato solo andando più a fondo. 

È una storia di boy meets girl: lui e lei si incontrano al liceo, si innamorano, stanno insieme, si lasciano per andare a frequentare l’università in città diverse e si reicontrano due anni dopo. Intanto, in una trama parallela, i genitori di lui subiscono l’impatto della crisi economica (siamo nel 2008) e della perdita di lavoro sulla pelle del loro amore. Questa seconda è decisamente la parte più fiacca del film, l’idea sarebbe di mettere a confronto un amore maturo messo alla prova con uno appena nato e giovanissimo messo alla prova, ma è evidente che non ci sia la medesima partecipazione, la medesima convinzione o il medesimo fuoco emotivo. E del resto come potrebbe? Così dal confronto uno ne esce ben più sminuito dell’altro.

Quando però First Love si occupa dei suoi giovani amanti al primo amore le atmosfere sembrano avere la medesima qualità rarefatta e densa di tensione sentimentale della serie Normal People. In questa storia come tante altre che A. J. Edwards sembra aver rallentato esattamente come Nicolas Winding Refn ha fatto con il cinema d’azione con Drive (non intaccando il ritmo ma anzi aumentandolo proprio attraverso la lentezza) non corre sopra i consueti luoghi comuni, non li tratta come punti di una lista che vanno toccati, ma si sofferma su ognuno, se li gusta e in ogni momento tramite una recitazione curatissima esplora i personaggi e si chiede: "Quale minuscola variazione emotiva sta avvenendo dentro di loro adesso?".

È questo cinema sussurrato di grandissima perizia tecnica, in cui l’accoppiamento tra musica e stile di recitazione (così minimale e moderno il primo, che pare venire dai film di Guadagnino, così classica la seconda), accende nuove luci su vecchi intrecci, non delinea tanto delle personalità uniche ma dei momenti unici, sottomette i personaggi alla capacità incendiaria dell’attimo, un’esitazione, una decisione, uno sguardo e un’aria sognante che invece che non voler dire niente (come succede quasi sempre) è finalmente carica del senso che le si vorrebbe dare.

Continua a leggere su BadTaste