Fire Squad - Incubo di Fuoco, la recensione

L'etica del sacrificio individuale, la vita privata, il rischio della vita, in Fire Squad c'è tutto, o quasi

Critico e giornalista cinematografico


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Non bisogna farsi ingannare dallo spirito libero ed ecologico, dai grandi scenari e dalla causa nobile, Fire Squad - Incubo di Fuoco non è un thriller come poteva essere Fuoco Assassino, cioè cinema d’azione in cui invece di un nemico umano c’è un nemico elementale. Fire Squad è cinema militare a tutti gli effetti, non diverso da quello muscolarissimo e granitico di Peter Berg (non a caso diversi produttori del film vengono da film con lui o semplicemente militari), versione moderna dei racconti sull’esercito che sostituiscono la convinzione di essere dalla parte giusta che ha imperato fino agli anni ‘80 (o il suo opposto, la scoperta di essere nel torto), ad una più neutra e indiscutibile etica del sacrificio individuale e della lontananza da casa.

Infatti la dialettica principale di Fire Squad non è quella tra corpo e nemico ma quella tra singoli soldati (o in questo caso pompieri) e propria famiglia, tra cameratismo maschile in azione e rapporti difficili con donne toste e combattive nella vita privata. Qual è il prezzo che pagano ogni giorno nella loro vita questi uomini che compiono azioni straordinarie?
Questo gruppo di pompieri creato per combattere gli incendi non in una specifica postazione ma ovunque accadano (tutto nasce da un articolo comparso su GQ) ha lo spirito eroico del sacrificio dei militari e viene rappresentato nella medesima maniera, con le reclute che si allenano per essere al livello giusto, con l’etica della fatica estrema, dei commilitoni e con i discorsi motivanti. Cinema pensato per commuovere animi patriottici.

Se centrato questo tipo di film è l’unico possibile erede del western classico, l’unico in cui l’uomo è solo davanti alle proprie responsabilità, con un’azione utile a metterlo di fronte ad un dilemma morale che solitamente necessita di nervi saldi e volontà di ferro.
Con Josh Brolin nei panni del capo affaticato dall’età, appesantito dal senso del dovere e dalla gravitas del ruolo (ha anche gli occhialini di ordinanza, anch’essi sempre riluttanti ad essere estratti), Fire Squad è equamente suddiviso in scene familiari e scene d’incendio o di allenamento in cui Brolin tiene in piedi la quadra a colpi di mutismo virile. L’azione è insomma pari ai momenti che creano la tensione e formano nello spettatore la percezione di cosa sia a rischio. Addirittura a tratti c’è quasi l’impressione che si parli e si annunci il rischio più di quanto non lo si mostri.

Fire Squad insomma è eseguito benissimo da un regista appassionato di design come Kosinski (suoi Tron: Legacy e Oblivion), un monumento alla dedizione sul lavoro che manca però d’anima. Impeccabile nella resa, nella correttezza, nello spirito e nell’esecuzione sembra essere stato realizzato con impegno da qualcuno che non ci credeva fino in fondo ma che aveva intenzione di fare un buon lavoro. Dai discorsi fino ai dialoghi (uno tra Josh Brolin e Jennifer Connelly è un gioiello di durezza e amore) tutto sprizza uno spirito selvaggio e ruvido messo al servizio dei grandi spazi, sempre adeguatamente inquadrati per fare da cornice e specchio al tempo stesso. Tuttavia mai si avverte la spinta della convinzione, l’anelito della partecipazione personale di chi il film l’ha diretto.

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