Finchè Morte non ci Separi, la recensione
Pronto a contaminarsi con l'umorismo Finchè Morte non ci Separi proprio con quello fa le sue affermazioni più serie
FINCHÈ MORTE NON CI SEPARI, LA RECENSIONE
Come in Rec 3: La Genesi anche al centro di Finchè Morte Non Ci Separi c’è una sposa con l’abito strappato tutta ricoperta di sangue e armata, un’immagine dalla potenza immutata che viene dal profondo, è stata riportata in alto da Tarantino con Kill Bill e qui è usata per una fuga e il classico ribaltamento delle forze in campo. La sposa è stavolta braccata dalla famiglia del suo sposo che l’ha chiusa nella gigantesca magione di loro proprietà per giocare a nascondino: se la trovano prima dell’alba la uccidono. La ragione viene da un’antica tradizione familiare, la quale affonda le radici in qualcosa di losco e pericoloso. Una volta partito il gioco, se non riescono a farla fuori entro l’alba moriranno loro.
Innanzitutto vuole ribaltare le consuete dinamiche di forza, come spesso fa l’horror, ma invece di trattare la ragazza protagonista come una final girl (l’ultima a rimanere dopo la serie di omicidi negli slasher) la rende una involontaria e inesorabile donna d’azione.
E questi altri sono i ricchi, l’altissima borghesia con un passato di violenza che educa le sue nuove generazioni ad altra violenza, perpetuando un atteggiamento predatorio su chiunque venga da fuori. Nessuno afferma: “Non ci piacciono gli stranieri” come dice lo sceriffo a Rambo nel primo film della serie, ma del resto non c’è bisogno di dirlo. Per sopravvivere e perpetuare il tenore lussuoso devono uccidere gli elementi spuri: “C’è un signore che in cambio di tutte le belle cose che abbiamo ci chiede solo questo”. E chi sia quel signore è una delle sorprese forse meno sorprendenti ma anche più divertenti per le conseguenze e le scene a cui porta nel finale. Ancora una volta far ridere è stata la maniera migliore per dire le cose più serie.
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