Finch, la recensione

Rimasto solo in un mondo quasi disabitato stavolta Tom Hanks si costruisce un robot da compagnia per un'avventura anche troppo tenera

Critico e giornalista cinematografico


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Finch, la recensione

Se la razza umana dovesse scegliere un rappresentante che insegni ad un robot ad essere un essere umano per bene, è facile immaginare che la scelta ricadrebbe su Tom Hanks. Specialmente se si tratta di farlo in regime di totale isolamento. Per anni Hanks ha coltivato su di sé l’immagine del buon padre, dell’uomo per bene e dell’essere umano migliore possibile. Non quello eroico ma quello ordinario, che vede i propri errori e lotta per essere la miglior versione di sé. E anche quando è eroe (Sully) lo è in maniera semplice e ordinaria. Parallelamente in diversi film (da Cast Away almeno) ha coltivato l’immagine dell’uomo solo in terra aliena. Lo è in Aspettando il re, in Il ponte delle spie, in Captain Phillips e in The Terminal, sempre in difficoltà e con poche persone (se non proprio nessuno) con cui relazionarsi. Ed è sempre incredibilmente empatico, vedere un film con Tom Hanks è un piacere.

Così adesso in Finch, rimasto tra i pochissimi ancora vivi sulla Terra dopo che una questione di buchi nell’atmosfera ha reso impossibile stare al sole, ha distrutto la possibilità di avere elettricità e quindi condannato i pochi a non essere morti ad una vita primitiva o sotterranea, si è costruito un robot da compagnia. Non è più un pallone reso umano da allucinazioni e dal bisogno di altri, ma un’intelligenza artificiale che umana lo è davvero e da subito (uno dei problemi del film che subito lo sposta dalla fantascienza al fantastico) a fargli da compagno assieme ad un cane in una missione sconclusionata da cui, inevitabilmente, esce un film sconclusionato.

Il robot si dà da solo il nome Jeff e sembra disegnato e animato per rubare dalla Aardman idee di design tenere e stralunate grazie a proporzioni e movimenti (specie le mani). Non fa in tempo ad imparare le prime cose che l’arrivo di una tempesta che minaccia di bloccarli al chiuso per 40 giorni costringe la compagnia a partire e lasciare le rovine di St. Louis per San Francisco. Nel più classico viaggio in camper da cinema indie Hanks insegna al robot ad essere umano, gli spiega cosa sia relazionarsi agli altri e il bello dell’essere vivi. La ragione la capiremo e sarà un’altra cucchiaiata di dolcezza in un film che non ha pietà per lo spettatore quando si tratta di sdolcinatezze.

Ma anche volendo seguire Finch su quel territorio, al netto di una realizzazione correttissima (Miguel Sapochnik è un mestierante formatosi alla dura scuola della nuova serialità, con ore e ore di episodi consegnati senza pecche), si rimane delusi dal fatto che dopo tutto questo pontificare sul vivere a pieno il film non riesce mai ad ideare situazioni, svolgimenti, snodi o momenti che lo lascino anche capire. Il grande limite del film sta nell’essere una parabola sulla vita che non la sa rappresentare, non dà mai allo spettatore un assaggio che lasci intuire la torta completa ma solo un manuale teorico di belle frasi (non bellissime).
Film che hanno parlato molto meno sono stati in grado di dire molto di più.

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