Finalmente l'alba, la recensione | Festival di Venezia

Con una prima parte eccezionale che sembra uscita da L'amica geniale, Finalmente l'alba parte benissimo purtroppo poi cambia tutto

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Finalmente l'alba, il film di Saverio Costanzo con Lily James presentato in concorso al festival di Venezia

Tutta la prima parte di Finalmente l’alba sembra nato per partenogenesi da L’amica geniale (la serie). Come se fossero rimaste delle uova non fecondate nell’immaginazione di Saverio Costanzo che si schiudono qui, si trova esattamente quell’Italia anni ‘50 vista dal basso con una stupefacente vicinanza, un casting di volti fenomenale e una recitazione di livello altissimo, specialmente dai caratteristi. Tutto filtrato da quell’aria sospesa che non nega il realismo e non lo trasforma apertamente in magia, ma sta con eleganza tra i due che caratterizza i film migliori di Saverio Costanzo. La scrittura invece, che chiaramente non viene da Elena Ferrante, ha una qualità da cinema anni ‘50 italiano, come se questi personaggi che incontriamo mentre sono in sala a vedere un film, parlassero come i film stessi (e non viceversa). Uno score che sembra uscito da un film di Hitchcock costituisce l’unico scarto e lo fa benissimo, costruendo invece che tensione un senso sospeso.

Uscite dal cinema le due sorelle protagoniste sono notate da qualcuno che lavora a Cinecittà e le invita a presentarsi al casting di un peplum americano che si gira in quei giorni. Lì, il giorno dopo, la sorella meno bella (Rebecca Antonaci) sarà scelta per ragioni strane. E già qui si respira con una forza potentissima il potere del cinema di far sognare. Avviene sia quando alcuni bambini guardano il set attraverso un buco, sia in una fantastica scena in cui una truccatrice racconta alla protagonista la trama del film che si gira, con un carrello lieve in avanti e un piano di ascolto trasfigurato dal sogno. È davvero il migliore degli inizi possibile, in cui ogni singolo personaggio è caratterizzato con cura, anche chi ha poche battute, e in cui anche le scene di passaggio contribuiscono alla costruzione del senso generale. È una cartolina di Cinecittà inserita in un racconto affascinante, la seconda parte invece sarà lo specchio scuro di questo, quando la protagonista si avvicina troppo alle star.

Purtroppo a quel punto qualcosa cambia proprio nel film. Finalmente l’alba diventa quello che realmente è, la storia di una lunga nottata in cui questa protagonista è trascinata dagli attori americani (in particolare dalla star interpretata da Lily James) nella Cinecittà Babilonia (c’è un caso vero di omicidio sullo sfondo), perché loro si sono convinti che lei abbia qualcosa che fomenta il loro talento e perché lei non sa dire di no. Questa grossa seconda parte è molto meno a fuoco, meno centrata e sviluppa molto peggio i suoi temi. Sa bene cosa non essere: non è la storia di due donne allo specchio, non è un viaggio all’inferno e non è (come potrebbe sembrare a un certo punto) un paradosso temporale. Saprebbe anche cosa essere (lo scopriamo in un’ultima scena non impeccabile) ma non lo sentiamo mai.

Tutto si sfilaccia, a partire dalle interpretazioni dei caratteristi che calano decisamente, come cala la capacità di immaginare momenti potenti e soprattutto cala l’esplorazione dei personaggi. La protagonista, prima così ben delineata, diventa la personificazione stessa dell’occhio sgranato, tra il confuso e l’ammirato, mentre la star americana non la conosciamo mai veramente, rimane una figura evanescente. Arrivati a quel punto solo ciò che è accessorio e collaterale è bello, i piccoli momenti, le scene di transizione, mentre ciò che percepiamo essere importante e a cui il film dà peso gira a vuoto, lasciando alla fine l’idea di un’occasione sprecata.

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