Final Cut, la recensione | Cannes 75
Da un film giapponese molto divertente Hazanavicius crea un film francese abbastanza divertente ma con una dolcezza contagiosa
Bisogna farsi forza lungo i primi 30 minuti di Final Cut. Si capisce subito che stiamo vedendo qualcosa di appositamente brutto e sgraziato, un unico piano sequenza disastroso in cui va tutto male (ed è bravo Hazanavicius a far capire a tutti, senza che nessuno lo dica, la quantità di cose che non vanno bene), ma purtroppo non fa ridere e non intrattiene come vorrebbe. È la parte più ostica del film ma paradossalmente anche la più importante e più utile, quella che ci prepara a tutto il resto. Finito Z, questo terribile filmetto in piano sequenza, vediamo infatti come ci siamo arrivati, chi lo abbia fatto, perché e cosa sia successo dietro le quinte di quei 30 minuti che ha portato al disastro. È la dinamica di Rumori fuori scena adattata alla storia di un regista infimo, noto per essere “rapido ed economico”, a cui viene dato un compito difficile in cui per giunta va tutto male, che tuttavia lo purificherà.
Non mancano le prese in giro al cinema (anche se come in Il mio Godard ad essere presi in giro non sono i generi o i film, ma la cultura e i discorsi che esistono intorno al cinema, insomma non chi li fa ma chi li guarda) tuttavia il vero cuore di questo anti-Effetto notte è il lavoro degli attori e sulla recitazione. L’interpretazione di Romain Duris, il regista del film, è curatissima, i suoi piani di ascolto mentre nota i molti dettagli della preparazione andare male e mentre osserva il suo rapporto con la figlia andare male sono cruciali alla riuscita dell’ultima parte, in cui sempre la sua furia, la sua energia inarrestabile nel tenere in piedi tutto, costituisce il motore del film. Sappiamo sempre come le cose intorno a lui lo stanno influenzando, cosa che ci consente di sviluppare una grandissima partecipazione nella sua maturazione di una coscienza filmica, da regista un tanto al chilo a persona pronta a tutto per la riuscita del film. Una partecipazione che alla fine viene liberata con grande effetto da una piramide umana della troupe, che tutti insieme reggono la riuscita dell’impresa, e soprattutto da una singola foto (stesso finale dell’originale ma molto più efficace).