In ogni abito che confeziona Reynolds Woodcock nasconde un’etichetta con una scritta (ricamata) sempre diversa. Dentro una manica, in un risvolto interiore delle spalle o all’interno del bustino. Sono introvabili, invisibili, ma ci sono e lui sa che sono lì. Un po’ come
Paul Thomas Anderson che nel titolo di questo film (
Phantom Thread), facendo anche un po’ lo scemo, ha messo le sue iniziali. C’è qualcosa di nascosto nei suoi film (in molti dei grandissimi film), il vero senso non è mai in quel che appare, nell’intreccio e nelle ricerche dei personaggio ma è dentro, nelle pieghe dell’opera, non è quello di cui parla, la sua immagine esteriore e la bellezza per la quale riuscirà ad essere venduto, ma è qualcosa che sta più in profondità, nascosto a dargli valore.
E questa volta Paul Thomas Anderson anche direttore della fotografia del film si impegna davvero molto a dargli una confezione splendente come un abito di Woodcock, si impegna a confezionare qualcosa di molto raffinato, che ricostruisce momenti splendidi (la festa in maschera) senza indugiare troppo su di essi, che inventa inquadrature mai viste prima (quella dell’abitacolo dell’auto) ma con garbo ed evita l’umorismo di grana più grossa visto in Vizio di Forma. C’è una maniera soffice e gentile con cui Paul Thomas Anderson gira diverse scene tramite movimenti di macchina che proseguono nello stacco successivo, come se fosse un unico balletto. Si muovono i personaggi dentro le scene, si muove con loro la macchina da presa, proseguendo fluida anche dopo gli stacchi più duri e brutali.
A fronte di tutto questo, di un’evidenza di incredibile perfezione e sofisticata narrazione,
Il Filo Nascosto si presenta come il film meno clamoroso di
Paul Thomas Anderson, quello più ordinato e meno eccezionale degli ultimi tempi. Nonostante
Daniel Day Lewis lavori in grande armonia, fondando l’interpretazione sui piccoli gesti invece che sulle grandi sottolineature come in
Il Petroliere.
Con un inizio tipico per lui, fatto di ellissi, grandissimo ritmo e la creazione di un tempo sospeso, quasi irreale in cui far partire tutto, come se si atterrasse volando sulla storia, Il filo nascosto procede guidato più che altro dalle musiche di Johnny Greenwood, che danno un andamento dal melò e svelano anzitempo l’ultimo quarto della storia dedicato proprio ad un melò disperato e furioso. Ma le intuizioni visive più clamorose, quelle che con un’immagine riescono ad affermare concetti che sarebbe complicatissimo esprimere a parole ed hanno a che vedere con la maniera intricata con la quale gli esseri umani vengono a patti con le proprie pulsioni, non si trovano qui.
È evidente che, per l’ennesima volta,
Paul Thomas Anderson ha portato in sala il miglior cinema possibile oggi, il miglior compromesso ipotizzabile tra l’industria, le star e l’arte, in un tentativo pazzesco di dare colpi al cerchio del pubblico e alla botte delle proprie ambizioni personali. Ma è anche vero che non riesce, come in passato, ad operare una sintesi così efficace, così universale e così penetrante da coinvolgere passionalmente in un gioco intellettuale. Il filo nascosto è un grande film, ma somiglia molto di più all’idea preconcetta che possiamo avere di film sofisticato che a ai film devastanti come
Vizio Di Forma,
Il Petroliere e
Ubriaco D’Amore, quelli che rompono ogni regola imponendo invece le proprie, distruggendo quel che pensavamo di sapere, i nostri preconcetti cioè, e facendo vedere a tutti un’altra strada per giungere in posti che non conoscevamo.