Figli, la recensione

L'ultima commedia di Mattia Torre è forse la più compiuta. Figli è un gioiello di scrittura, regia ed interpretazione comica che però difetta negli obiettivi

Critico e giornalista cinematografico


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FIGLI, DI GIUSEPPE BONITO: LA RECENSIONE

Le commedie italiane, in media, non fanno ridere. Diventa evidente davanti a un figl come Figli, che invece fa ridere, e ricordando subito come funzionano queste cose. Funzionano che gli attori interpretano bene una sceneggiatura scritta in modo che l’ironia ci parli della trama e dei personaggi, e lo fanno in certi casi aggiungendo dettagli di recitazioni che enfatizzano l’umorismo. Funzionano che tutto ciò è diretto da una regia che non si limita a dargli spazio ma collabora con loro con le armi della composizione delle inquadrature e del montaggio per aiutare le battute, dar loro respiro, evitando di accavallarle e in certi casi fornendo una risata in più solo con un tempo di montaggio.
Questa è l’unica maniera in cui può accadere che due attori molto bravi come Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi sembrino dare il loro meglio e un autore di testi come Mattia Torre (tra gli autori di Boris) sembri aver scritto la sua sceneggiatura definitiva.

Figli viene infatti da un monologo di Mattia Torre che lui stesso, prima di morire, ha adattato in un film poi diretto da Giuseppe Bonito. Ed è abbastanza evidente dalla quantità di pezzi di monologhi che costellano il film, spesso affidati a voci fuoricampo, altre volte recitati in campo, altre volte inseriti in dialoghi innaturali ma esilaranti. Tutto il tono del film infatti oscilla tra il concreto e l’ideale, tra l’immaginario e l’iperrealista, creando un’aria solo vagamente surreale che come spesso capita racconta le storture della realtà molto meglio di un insistito realismo.

Simbolo di tutto ciò è la trovata metanarrativa di sostituire il pianto del bambino con un brano di Beethoven. Ottima idea di scrittura che viene recitata bene e utilizzata moltissime volte senza mai risultare stucchevole, perché scrittura e regia ogni volta trovano una chiave diversa per rendere il tormentone inatteso e funzionale. Questo ha un nome semplice: lavorare bene.

Dunque non sono certo la capacità e la qualità della fattura comica a deludere (anzi sono un toccasana), ma è semmai cosa il film voglia fare con tutto questo. Perché Figli decide di piegarsi a recitare una lunga ode dei protagonisti, della generazione dei protagonisti e della categoria dei protagonisti (i genitori di 40-50 anni). Mette i due genitori buoni, retti e pieni di ottime intenzioni in un mondo ostile che li scoraggia, vessa il loro desiderio di essere genitori e li rende martiri. Se parte di questo è la naturale rappresentazione di autentiche difficoltà, il tono con cui è messo in scena cerca il compiacimento più totale. Liscia il pelo, accarezza e conforta. Incolpevoli di tutto i genitori sono elevati e lodati di continuo perché escano dal cinema rinfrancati e fieri di sé.

In questa maniera Figli si preclude la possibilità di una visione complessa o di un’idea complessa di società, rinuncia a dire qualcosa al suo pubblico che non sia quel che già, reconditamente questo pensa di sé, alimentando il risentimento invece di stimolare l’autocritica. Soprattutto tutto questo risulta in un film divertente, ben realizzato, sveglio, intelligente e acuto ma paradossalmente mai capace di diventare memorabile.

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