Feud: Capote Vs. The Swans, la recensione

«Il secondo capitolo della serie antologica sulle faide storiche più famose regala interpretazioni straordinarie ma poca (e noiosa) sostanza»

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A sette anni dalla prima stagione torna il racconto antologico di Ryan Murphy sulle delle faide storiche più famose, Feud: Capote Vs. The Swans, disponibile da oggi 15 Maggio su Disney+. Ecco la nostra recensione (senza spoiler). 

C’è qualcosa di affascinante nelle serie tv antologiche. Viviamo nell’epoca del sovraffollamento mediale, e l’idea di poter guardare una sola stagione di una serie senza dover recuperare la precedente gioca sicuramente un ruolo fondamentale, ma più di tutto è la natura del racconto antologico ad essere unica. Sono serie tematiche e per questo dalla forte identità che ruotano attorno ad un’idea o una suggestione che si snoda come un fil rouge attraverso le varie stagioni, spesso diverse anche per genere, legate insieme non per la cronologia degli eventi ma per la loro funzione narrativa. Negli ultimi anni c’è sicuramente un nome che più di tutti si è legato a questo format, ed è quello del produttore e sceneggiatore Ryan Murphy, mente ideatrice di Feud: Capote Vs. The Swans, secondo capitolo del progetto antologico Feud

Scandali alla corte newyorkese

Siamo nella New York a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, e l’acclamato scrittore Truman Capote si muove nei salotti dell’alta società cittadina circondato da un gruppo di donne ricche e influenti che lui definisce “i Cigni”. Incantato e incantatore a sua volta, Capote è riuscito nel tempo a farsi spazio nella loro vita diventandone amico e confidente. Un’amicizia che viene però tradita quando nel 1975 decide di scrivere e pubblicare un racconto, La Côte Basque 1965 (dal nome di un famoso ristorante dove il gruppo è solito pranzare), pubblicato sulla rivista Esquire come estratto di un libro che sarebbe poi uscito nel 1986 postumo ed incompleto, Preghiere Esaudite

Il racconto rivela, seppur sotto nomi fittizi, i segreti più oscuri e gli scandali più dolorosi di queste donne apparentemente perfette ma che nascondono una vita fatta di solitudine e tradimenti, che Capote come scrittore e attento osservatore non si fa remore di rendere pubblici. La reazione dei Cigni, umiliati e traditi, non si fa attendere: da quel momento a Capote non solo verrà negato il perdono, ma lo scrittore si vedrà allontanato ed ostracizzato da ogni salotto mondano. La faida sarà la causa di una battuta d’arresto della sua carriera, e la solitudine e il senso di colpa lo porteranno a scivolare repentinamente in una spirale autodistruttiva da cui non riuscirà mai più a riprendersi e che lo porterà lentamente alla morte. 

Ryan Murphy, il maestro dell’antologia

Dopo il primo inaugurale capitolo del 2017 Feud: Bette e Joan, che sviscerava l’ostilità tra le due star hollywoodiane Bette Davis e Joan Crawford sul set del film del ’62 Che fine ha fatto Baby Jane? (le straordinarie Susan Sarandon e Jessica Lange), Ryan Murphy ha una nuova guerra da raccontare. L’operazione è simile a quella vista con American Horror Story e American Crime Story, ma al posto di leggende horror e celebri crimini, con Feud ad essere protagonisti sono alcuni dei “duelli” più leggendari della storia. La seconda stagione doveva inizialmente basarsi sul racconto del sanguinario divorzio tra Carlo e Lady Diana, ma a quel punto la serie non avrebbe più brillato per originalità. 

Si è scelto invece di adattare il libro bestseller "Capote’s Women: A True Story of Love, Betrayal, and a Swan Song for an Era” di Laurence Leamer, che non solo è il racconto di una battaglia, ma più di tutto è un resoconto di un’epoca, quella della New York mondana e frivola dei ’60 e ’70 che si incamminava inesorabilmente sulla via del tramonto. Ryan Murphy è qui solo in veste di produttore, mentre la scrittura è affidata a Jon Robin Baitz che adatta la storia in otto episodi diretti per la maggior parte da Gus Van Sant (Will Hunting – Genio Ribelle) e da Max Winkler e Jennifer Lynch

L’addestratore e i suoi cigni

Protagonista assoluto per la centralità del ruolo ma anche per la portata dell’interpretazione è il Truman Capote di Tom Hollander. Il compito per l’attore inglese non era semplice: la straordinaria performance del compianto Philip Seymour Hoffman nel film del 2005 avrebbe intimorito chiunque, ma Hollander si destreggia in perfetto equilibrio fra l’interpretazione e la mimesi più pura. Il rischio della caricatura nel caso di un personaggio eccentrico come Truman Capote era dietro l’angolo, ma lo studio dei manierismi, della voce acuta e cantilenante (si ha spesso la sensazione di assistere ad una sorta di playback del vero Capote), degli atteggiamenti e della postura del corpo hanno portato l’attore a delineare una persona e non un personaggio, proprio come nella descrizione dello stesso Capote.

Tom Hollander proprio come Truman Capote è prima donna in mezzo alle donne, brilla per intensità interpretativa, regalando dettagli di un uomo, quello afflitto dal blocco dello scrittore dopo successi come Colazione da Tiffany e A sangue freddo, triste e fragile, perseguitato dal suo talento ma imprigionato in una spirale di disperazione, alcool e autosabotaggio. 

“I Cigni” sono portati sullo schermo da grandi nomi dello star system: nei panni dell’amica più vicina a Capote, Babe Paley, abbiamo il premio Oscar Naomi Watts, che regala un’interpretazione centrata e dolente, quasi troppo perfetta, esattamente come il suo personaggio. Diane Lane dà il volto alla più agguerrita tra i cigni Slim Keith, ex-moglie del produttore cinematografico Howard Hawks, mentre Chloë Sevigny interpreta C.Z Guest, l’unica donna indulgente nei confronti di Truman. Calista Flockhart veste i panni di Lee Radziwill, sorella di Jacqueline Kennedy e Demi Moore quelli di Ann “Bang-Bang” Woodward, che più di tutti ricorda a Truman la propria madre.

Madre fantasma a cui presta il volto l’attrice feticcio di Murphy Jessica Lange, così come vediamo il ritorno di Molly Ringwald che interpreta Joanne Carson. Il cast comprende anche il compianto Treat Williams nel suo ultimo ruolo di Bill Paley, Joe Mantello in quello dell’eterno amico/amante Jack Dunphy e Russel Tovey nel ruolo dell’inquietante toy boy John O’Shea. 

Vasti stagni dall'acqua bassa

Feud: Capote Vs. The Swans racconta molto: c’è la decadenza della società newyorkese, la ferocia del classismo e il finto perbenismo che in realtà cela omofobia e razzismo. Si parla poi delle dipendenze affettive e da sostanze, della malattia socialmente accettabile e quella giudicata come debolezza e della paura di invecchiare. E ancora il rapporto tra lo scrittore e ciò che racconta, la solitudine e il dolore mascherati da successo, l’amicizia vera e quella di apparenza, il perdono pubblico Vs. quello sincero. Il tutto in una cornice di scintillanti e ben educate frivolezze, con una sceneggiatura che inserisce dei dialoghi, spesso in voice over, che traggono a piene mani dalle opere dello scrittore americano. 

Anche in Feud: Capote Vs. The Swans Murphy utilizza il racconto di un epoca per mettere in luce tematiche queer particolari, come il complesso rapporto tra gli uomini gay e il femminile. La serie non si vergogna ad utilizzare termini offensivi per il pubblico moderno, come vediamo nel quinto episodio, La vita intima segreta dei cigni (il migliore della serie) in cui viene mostrato un incontro, mai avvenuto nella realtà, tra Capote e l’attivista e scrittore gay nero James Baldwin (un bravissimo Chris Chalk), in cui il secondo incoraggia il primo a riprendere il controllo sulla sua vita, di non commiserarsi ma anzi di vantarsi di aver smascherato il ben celato disprezzo dei ricchi bianchi verso tutto ciò che è diverso.

Al tono camp, tipico delle produzioni murphyane, che la storia avrebbe potuto ispirare si preferisce un approccio più drammatico come quello adottato in America Crime Story. Ciò che più manca però è una reale coesione tra i temi: guardando la serie si ha la sensazione di restare in superficie, proprio come un cigno, che nuota costantemente sul pelo dell’acqua senza mai addentrarsi in acque più profonde. 

La metafora del cigno 

“Bellissimi, imperturbabili, stupefacenti, singolari, che scivolano attraverso gli stagni della società, e sotto la superficie dell’acqua devono remare più forte, più di un’ordinaria anatra, per stare a galla”, questa la definizione che Truman Capote usa per descriverli. Il suo è il ruolo di testimone e giullare di questi rari esemplari, il gay feticcio a cui queste donne si rivolgono per essere adorate e comprese: dalle vite affascinanti ma in realtà superficiali e noiose, "I Cigni" possono all’occorrenza diventare competitivi, sleali e aggressivi, arrivando ad uccidere chiunque minacci il loro territorio: Capote è l’unico ad avere le chiavi dello stagno ma allo stesso tempo non può proteggersi dalla cattiveria dei suoi abitanti. 

La metafora del cigno è molto utilizzata nel corso degli otto episodi, ma non per questo perde di fascino, anzi le sempre nuove chiavi di lettura diventano la bussola per la comprensione della storia. Definito dalla critica come “Il vero Housewives”, il secondo capitolo di Feud restituisce in parte la tensione di un duello combattuto a colpi di silenzi, pettegolezzi e commenti malevoli, ma fallisce nell’analisi delle ragioni più profonde di tanto disprezzo. Il rapporto tra Capote e i suoi Cigni non è mai davvero analizzato, così come il motivo che ha spinto alla scrittura di un pezzo così diffamatorio: ci sono suggerimenti e suggestioni, ma alla domanda vera e propria la serie non dà risposta. Se il libro fu pubblicato postumo e incompleto, ai fini invece di un racconto televisivo, senza questo elemento, molta della narrazione crolla su sé stessa. 

Un racconto non lineare 

A rendere più difficile la comprensione dei personaggi non c’è solo la poca caratterizzazione del gruppo e delle singole protagoniste femminili (Capote fa eccezione), ma anche la scelta di una struttura temporale non lineare. La storia nasce e finisce con l’evento clou e tutto ruota attorno alla pubblicazione del racconto, con continui salti avanti e indietro nel tempo che rendono la timeline confusionaria e difficile da decifrare. Spesso i passaggi da un periodo storico all’altro non sono segnalati e si fa fatica a comprendere la portata di un certo evento perchè mal collocato nel tempo. Lo spettatore si ritrova disorientato non tanto per lo svelamento dei fatti, ma piuttosto per la mancata empatia, o non empatia, che dovrebbe provare nei confronti dei personaggi e delle loro relazioni. Strutturati in questo modo gli otto episodi rendono non impossibile, ma difficile il coinvolgimento

Meno male che c’è il glamour

Il titolo di questo paragrafo non è un caso, ma una diretta citazione alla nostra recensione di Palm Royale, la serie tv comedy di Apple Tv+ ambientata nell’alta società non di New York, ma della Florida di fine anni ’60. Pur essendo diverse nel genere, entrambe le serie vedono come fulcro del racconto la vita mondana dei salotti americani, ed entrambe le serie sono bellissime da guardare. Come Palm Royale, anche in Feud: Capote Vs. The Swans uno degli elementi più riusciti è l’eleganza e la fedeltà della ricostruzione storica dell’estetica di fine anni ’60 e inizio ’70, dai i magnifici costumi e le vaporose parrucche delle socialites al set design dei ristoranti, alberghi e lussuose residenze di New York. 

In Palm Royale questa estetica veniva mostrata in tutto il suo splendore, mentre qui il glamour assume un tono più decadente e sbiadito nei colori, proprio a testimoniare lo stato della società del tempo. Colori che nel terzo episodio, Il ballo in maschera 1966, scompaiono del tutto, lasciando spazio ad un bianco e nero che trasforma l’intento quasi documentaristico di raccontare il famoso Ballo in Bianco e Nero organizzato da Capote in una scelta stilistica ben precisa. La messa in scena è di grande livello e rende il glamour la forza sicuramente più trainante della serie. Nota di merito per le animazioni dell’opening, che sembrano uscite direttamente dalle illustrazione della rivista New Yorker di quegli anni. 

Alla prossima faida 

Feud: Capote Vs. The Swans non si può certo definire una serie tv deludente, ma noiosa si, che si trascina proprio come la voce del suo protagonista, dal tono fin troppo serio e senza particolari guizzi. Le performance del cast e la messa in scena sono impeccabili ma la riuscita di alcune parti non è sufficiente a rendere il risultato degno di nota nel suo insieme. La serie non è stata ancora rinnovata per una terza stagione, ma di celebri duelli la storia ne è piena. Ora speriamo solo di non dover aspettare altri sette anni per assistere al prossimo. 

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Potete trovare tutte le informazioni e le curiosità sulla serie nella nostra scheda.

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