Feud 1x08, "You Mean All This Time We Could Have Been Friends?" [finale di stagione]: la recensione

Cala il sipario su Feud e sulle sue due eroine tragiche, lasciando gli occhi umidi di commozione e la bocca invasa da un sapore agrodolce

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Spoiler Alert
"Tutto quel dolore avrà un significato alla fine?" La domanda che si pone Joan Crawford all'interno del suo estremo, ultimo sogno riconciliante coi nemici di una vita - Hedda Hopper, Jack Warner e, ovviamente, Bette Davis - riecheggia nelle nostre orecchie una volta che il sipario viene definitivamente calato su Feud e sui suoi protagonisti. Nell'ultimo atto, la serie targata FX assurge ai vertici del sublime, traslando in una visione dal sapore teatrale il dolore di una donna, Joan, giunta alla fine dei suoi giorni conscia di aver vissuto in funzione di un personaggio creato a uso e consumo del prossimo. Fuori da Joan Crawford, Lucille non è altro che una donna di mezza età confortata da fantasmi irreali che le offrono una pace mai realmente sperimentata, divorata dall'interno dal cancro e dalla solitudine.

Tra morti premature e irrealizzati aneliti pacificanti, il viaggio di Feud si conclude su note più amare di quanto avesse lasciato presagire col suo frizzante esordio, e modula la sua malinconica chiusura su toni gravi che ne universalizzano ulteriormente il messaggio, lasciandoci con domande che poco o nulla hanno a che vedere con la semplice rivalità tra dive. Aver seguito Joan nelle sue piccole e grandi meschinità, culminate nelle strategie per sottrarre l'Oscar a Bette nel '63, ci consente di accostarci alla sua caduta finale con piena consapevolezza dei passi falsi che condussero l'attrice al precipizio, ma non certo con minor tristezza.

Tanti sono i momenti toccanti che You Mean All This Time We Could Have Been Friends? (frase finale di Che Fine Ha Fatto Baby Jane?) offre al suo pubblico. Joan Crawford che si infila la maschera da primate nel teatro di posa vuoto sulle note di The End dei Doors è una delle scene più struggenti dell'intera stagione, nonché l'ennesima strizzata d'occhio alla fulgida carriera di Jessica Lange, in una vaga e divertita allusione a King Kong. La ex ragazza più bella di Hollywood, ormai ridotta a dover accettare ingaggi in piccole produzioni di serie B, stila una lista di consigli di vita che celano a fatica le crepe di un'esistenza ormai alla deriva, sia dal punto di vista fisico che psicologico - sebbene supportata dalla fedele Mamacita, tornata a soccorrere l'antica datrice di lavoro in nome di un affetto messo a dura prova dagli sbalzi umorali dell'attrice.

A Bette, tempra più forte, non va poi tanto meglio; testimone dell'irrimediabile sbriciolarsi del rapporto con B.D., ricerca nell'alcol un balsamo ai propri repressi dolori e si confida con l'altra figlia Margot, affetta da pesanti ritardi, assistendo al fallimento dei suoi progetti televisivi e alla disfatta definitiva dell'unica persona che potesse, in effetti, intuirne le pene. "Vorrebbe persino che Faye Dunaway la interpretasse in un film," controbatte la sempre avvelenata Bette a un Victor Buono - di nome e di fatto - che la invita a telefonare all'ormai morente rivale (continuano fino all'ultimo i gustosi giochi metacinematografici che collegano attrici reali e interpretate in un diorama acuto e stimolante).

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La telefonata avviene, ma non una parola esce dalla bocca di una Davis impietrita, forse bloccata dall'ombra di un presagio di personali sventure. Joan non ottiene altro che silenzio, e deve aggrapparsi alla propria immaginazione per vivere, anche se solo con gli occhi della mente, un ultimo momento di spensieratezza, in cui finalmente raccogliere le scuse per le tante ferite infertele, volontariamente e non, da Hedda, da Warner e da Bette. Muore di lì a poco, ma strappa alla collega un sentito tributo dopo i due striminziti secondi concessi dall'in memoriam degli Oscar, qui raggelante memento mori dell'ingiusta riduzione di una carriera cinquantennale a pochi attimi in un mucchio di volti. "È ciò che otterremo tutti noi," commenta con sarcasmo non immune da amarezza Bette, prima di brindare alla defunta nemica; un gesto che, lo sappiamo, la Joan di Feud avrebbe apprezzato, e che avrebbe forse sanato una frattura alimentata da un ambiente vampiresco e competitivo.

In otto episodi che hanno tratteggiato il dolente autunno della vita di due donne che hanno lottato per restare dive fino all'ultimo, Feud ha saputo omaggiare le sue imperfette eroine con un'umiltà rara e una sensibilità che ci ha commossi e innamorati senza ricatti. L'ambizione cinematografica ha trasceso la scrittura, approdando al più sofisticato terreno dell'estetica e annullando in ogni comparto l'obsoleta linea di demarcazione qualitativa tra grande e piccolo schermo. Le vette poetiche di un'opera come Feud non sarebbero mai state raggiungibili da un prodotto cinematografico di durata standard per i canoni hollywoodiani, e in questo senso non risulta poi tanto azzardato accostare questa prima, magnifica stagione autoconclusiva alle sensazioni che solo un ottimo romanzo avrebbe potuto regalarci.

Come l'excipit di un'epopea letteraria, Feud: Bette and Joan si accomiata dai suoi spettatori su una nota nostalgica che rimanda a un capitolo precedente della storia, mostrando le due protagoniste eternate nel primo giorno di set insieme, quando ancora le possibilità relazionali si aprivano a ventaglio dinnanzi ai loro occhi bramosi di gloria, e la prospettiva di un'amicizia non risultava aliena ai loro cuori. Così, dandoci la caduca illusione di un'armonia di fatto smentita puntata dopo puntata, la serie di Ryan Murphy ci sospinge senza l'arroganza del moralismo verso un orizzonte che rifiuti la competizione distruttiva, in favore di una solidarietà necessaria - all'epoca tanto quanto oggi - ad abbattere cliché anagrafici e sessuali ancora fin troppo radicati.

È auspicabile, oltre che prevedibile, che Feud si aggiudichi un discreto quantitativo di riconoscimenti grazie al proprio eccelso cast; mai come in questo caso, decretare la superiorità di una protagonista sull'altra appare impossibile e, peraltro, contrario in tutto e per tutto a quello che la serie ci ha suggerito: la vittoria appartiene al sorriso straziante della Joan di Jessica Lange tanto quanto al cinismo fragile della Bette di Susan Sarandon, ed è un trionfo che vale doppio perché figlio del confronto con due mostri sacri. Così come le dive cui hanno restituito presenza fisica, anche le due superbe attrici di Feud resteranno immortalate all'interno di quest'opera magistrale, che ne esalta la bravura e la bellezza matura fuori dai canoni e dalle stolide convenzioni che afflissero i loro alter ego, concedendo a due tra le più grandi interpreti della storia del cinema una tardiva ma doverosa vendetta.

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