Feud 1x06, "Hagsploitation": la recensione
Il sesto episodio della prima stagione di Feud esplora il dramma dell'artista, incapace di godere appieno dei piaceri della vita in assenza di lavoro
Dopo l'amaro focus sull'Oscar mancato di Bette Davis la scorsa settimana, questa volta è Joan a spadroneggiare sulla scena: l'ineluttabile solitudine dell'attrice è accentuata dal suo successo in un film di serie B come Cinque Teste Mozzate (gustoso il cameo di John Waters nel ruolo del regista William Castle), la cui promozione le impone di entrare nelle sale cinematografiche in abito da sera, brandendo un'ascia di scena. L'imbarazzante contesto in cui Joan è calata a seguito dei ricchi incassi di Che fine ha fatto Baby Jane? si riflette senza equivoco sul volto della donna, e il suo dilemma d'interprete è reso a meraviglia dalla solida performance di Jessica Lange, in un legame da artista ad artista che ci azzardiamo a definire empatico.
La prima lettura del copione offre l'occasione, a Joan e Bette, di ritrovarsi e di tentare di nuovo la via dell'alleanza: via che si dimostra impraticabile già durante la prima riunione, in cui Davis critica aspramente la mancanza di credibilità dello script e l'eccesso di gore, citando Tito Andronico di Shakespeare e il personaggio di Tamora in un'allusione che crediamo non del tutto casuale: nel visionario adattamento cinematografico della tragedia firmato da Julie Taymor nel 1999, era proprio Jessica Lange a interpretare la regina che divora, inconsapevole, un pasticcio fatto con le carni dei figli uccisi. Alle fumantine reazioni di Bette, Joan controbatte con flemmatica calma, sottolineando solo la rozzezza formale del copione (impagabile la critica, del tutto attuale, a prediligere i tre puntini di sospensione rispetto a qualsiasi altro segno d'interpunzione) ma offrendo un sostanziale balsamo allo stress di Aldrich.
Ad affiancare la già elogiata prova di Jessica Lange, in questo episodio brilla la Hedda di Judy Davis, fiera persecutrice di "diversi" e distruttrice di carriere in difesa dell'economia morale del paese; altrettanto incisivi il Jack Warner di Stanley Tucci, velenosamente stizzito dal successo di Joan e Bette lontano dai propri studios, e il Robert Aldrich di Alfred Molina, riappropriatosi dei propri attributi in un memorabile scambio con il suddetto Warner, giusto in tempo per accorgersi di aver vissuto la propria vita in funzione del set, a scapito degli affetti familiari ormai irrimediabilmente perduti.
È una morale tragica e cupa, quella che si cela dietro il sorriso malinconico che ci dipinge sul volto Hagsploitation: una morale che immortala la solitudine dell'artista, incapace di beneficiare dei molti altri piaceri del mondo in assenza della linfa vitale che gli deriva dalla professione del proprio mestiere.