Feud 1x06, "Hagsploitation": la recensione

Il sesto episodio della prima stagione di Feud esplora il dramma dell'artista, incapace di godere appieno dei piaceri della vita in assenza di lavoro

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Spoiler Alert
"Non posso mostrarmi in giro senza un film di cui parlare. Se non lavoro, posso anche morire." Dietro questa frase provocatoria lanciata da Joan Crawford all'indirizzo di Mamacita, in risposta al consiglio di godersi gli anni restanti tra feste e relax, si cela il sottile, costante tormento che angustia molti artisti (e non solo): l'incapacità di apprezzare il tempo trascorso lontano dal lavoro. La fatale condanna di chi vive essenzialmente in funzione di ciò che fa, perché ciò che fa è l'unica valida certificazione di ciò che è, costituisce il nucleo pulsante di Hagsploitation, sesto episodio della prima stagione di Feud.

Dopo l'amaro focus sull'Oscar mancato di Bette Davis la scorsa settimana, questa volta è Joan a spadroneggiare sulla scena: l'ineluttabile solitudine dell'attrice è accentuata dal suo successo in un film di serie B come Cinque Teste Mozzate (gustoso il cameo di John Waters nel ruolo del regista William Castle), la cui promozione le impone di entrare nelle sale cinematografiche in abito da sera, brandendo un'ascia di scena. L'imbarazzante contesto in cui Joan è calata a seguito dei ricchi incassi di Che fine ha fatto Baby Jane? si riflette senza equivoco sul volto della donna, e il suo dilemma d'interprete è reso a meraviglia dalla solida performance di Jessica Lange, in un legame da artista ad artista che ci azzardiamo a definire empatico.

È un momento difficile, per Joan: accanto al disagio per la quasi obbligata partecipazione a una pellicola di genere, priva di qualsivoglia ambizione artistica, vi è l'inquietudine a seguito della visita di Hedda Hopper, che le segnala l'esistenza di un presunto filmino pornografico girato dall'attrice durante la sua indigente gioventù. Dietro la minaccia di diffusione del pruriginoso materiale si cela il fratello di Joan, Hal, a delineare con tratti ancora più desolanti un contesto familiare già gravido di violenze e soprusi. In fuga da un passato traumatico prima ancora che squallido e degradante, la donna accetta di tornare sul set con Robert Aldrich e, soprattutto, con la rivale Davis, nella speranza di bissare il successo di Baby Jane con una storia dalle tinte simili: Che fine ha fatto la cugina Carlotta?, poi divenuto Piano, piano, dolce Carlotta.

La prima lettura del copione offre l'occasione, a Joan e Bette, di ritrovarsi e di tentare di nuovo la via dell'alleanza: via che si dimostra impraticabile già durante la prima riunione, in cui Davis critica aspramente la mancanza di credibilità dello script e l'eccesso di gore, citando Tito Andronico di Shakespeare e il personaggio di Tamora in un'allusione che crediamo non del tutto casuale: nel visionario adattamento cinematografico della tragedia firmato da Julie Taymor nel 1999, era proprio Jessica Lange a interpretare la regina che divora, inconsapevole, un pasticcio fatto con le carni dei figli uccisi. Alle fumantine reazioni di Bette, Joan controbatte con flemmatica calma, sottolineando solo la rozzezza formale del copione (impagabile la critica, del tutto attuale, a prediligere i tre puntini di sospensione rispetto a qualsiasi altro segno d'interpunzione) ma offrendo un sostanziale balsamo allo stress di Aldrich.

L'atmosfera che trova ad accoglierla sul set a Baton Rouge è, però, tutt'altro che confortante: malgrado le migliori intenzioni palesate già dalla lettura del copione, Joan si vede ancora una volta relegata in secondo piano da Bette, che ha instaurato col regista un rapporto di complicità figlia della comune esperienza dell'imminente divorzio; una complicità che lascia Joan, ancora una volta, immersa nella palude di una solitudine assoluta, acutizzata dalla morte del pur odiato fratello e solo in parte lenita dalla presenza di una Mamacita sempre più esasperata.

Ad affiancare la già elogiata prova di Jessica Lange, in questo episodio brilla la Hedda di Judy Davis, fiera persecutrice di "diversi" e distruttrice di carriere in difesa dell'economia morale del paese; altrettanto incisivi il Jack Warner di Stanley Tucci, velenosamente stizzito dal successo di Joan e Bette lontano dai propri studios, e il Robert Aldrich di Alfred Molina, riappropriatosi dei propri attributi in un memorabile scambio con il suddetto Warner, giusto in tempo per accorgersi di aver vissuto la propria vita in funzione del set, a scapito degli affetti familiari ormai irrimediabilmente perduti.

È una morale tragica e cupa, quella che si cela dietro il sorriso malinconico che ci dipinge sul volto Hagsploitation: una morale che immortala la solitudine dell'artista, incapace di beneficiare dei molti altri piaceri del mondo in assenza della linfa vitale che gli deriva dalla professione del proprio mestiere.

Feud

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