Feud 1x04, "More, or less": la recensione

Nel quarto episodio della prima stagione di Feud, il successo di Che fine ha fatto Baby Jane? diviene spunto di riflessione sulla percezione di sé

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"Questa città è sempre stata un posto per uomini e gli uomini sono maleducati. Non mi aprono la porta, dovrò aprirla da sola con un calcio, come sempre." Le parole di Bette Davis a Robert Aldrich nel quarto episodio della prima stagione di Feud rimarcano il messaggio veicolato dalla serie sin dal suo esordio: da quando apre gli occhi sul mondo fino a quando lo lascerà, una donna è destinata a lottare da sola contro un mondo ostile. Non è, appunto, la prima volta che lo show ideato da Ryan Murphy sottolinea la drammaticità della condizione femminile, e questa reiterazione potrebbe risultare, a una prima occhiata, figlia di una povertà tematica interna al prodotto. Tuttavia, l'insistere sulla disparità sessuale, esplicitandolo nei dialoghi, senza la finezza dell'allusione, concretizza un coraggio che è solo una tra le molte virtù di questa storia di donne in lotta con se stesse, prima ancora che tra loro.

Dopo essersi concentrata, nei primi tre episodi, sulla nascita e creazione di Che fine ha fatto Baby Jane?Feud dipinge ora con sguardo ironico ma esente dal peso arrogante del giudizio il trionfo al botteghino del film di Aldrich, e il diverso - se non opposto - impatto di tale successo sulle vite delle sue due protagoniste. Accomunate dalla consapevolezza di non stare ricevendo la giusta attenzione da parte degli studios, immerse nella medesima palude che le imprigionava prima delle riprese, Bette e Joan si barcamenano tra particine in episodi di Perry Mason e copioni coraggiosi di aspiranti registe, puntualmente bollati come frutto di una fantasia irrealistica. A nulla valgono l'entusiasmo e la preparazione di Pauline, assistente di Aldrich, nel promuovere la sceneggiatura scritta con estremo sacrificio negli spiragli di tempo concessi dal ritmo incalzante della produzione: Joan rifiuta l'offerta del ruolo di protagonista di La Scarpetta Nera, malcelando il disprezzo con un'affettata educazione. Svanisce ben presto nel nulla anche l'iniziale appoggio di Aldrich; è nel successivo, sorprendente scambio con un'illuminata e illuminante Mamacita che Pauline - e noi con lei - riesce a intravedere un futuro in cui l'industria sia pronta ad accogliere e foraggiare film di donne, sulle donne, per le donne.

More, or less è, più di tutti gli episodi precedenti, un saggio sulla percezione di sé e sulla necessità di vedere riconosciuti i propri sforzi e, perché no, il proprio talento. Sebbene spesso armati gli uni contro gli altri, tutti i protagonisti di Feud - con l'eccezione di Warner, olimpicamente compassato - sono alla ricerca di un altrove, di un posto migliore - reale o metaforico - in cui possano riconoscersi e, cosa altrettanto importante nel sistema hollywoodiano, dove possano essere riconosciuti per ciò che realmente ambiscono a essere. Il dilemma, enfatizzato dal contesto in cui la vicenda è calata, è però uno spunto di riflessione pressoché universale, e che per una volta trascende la discriminazione sessuale: se Pauline anela a essere una regista, Aldrich punta a diventare un grande regista, mentre Joan annaspa nella paura di tornare a essere presto dimenticata, in favore della più appariscente - attorialmente parlando - Bette.

Chi siamo, per cosa siamo nati e cosa penserà la gente delle nostre scelte: gravose questioni perfettamente inserite nella macchina televisiva di Feud, tante volte sminuita dai protagonisti in un gioco d'ammiccamenti che diviene una più che meritata autocelebrazione. All'estrema godibilità delle tinte più melodrammatiche, si accosta qui una vocazione più profonda e sinceramente tragica, che si assume il rischio di porre allo spettatore domande esistenziali che lo avvicinino al travaglio vissuto dai protagonisti. Non è scelta da poco, encomiabile per l'intenzionale slalom da qualsivoglia rassicurazione: persino il più fulgido dei successi può celare, dentro di sé, un carico di potenziale disperazione tale da far inconsciamente sperare nel fallimento. In Feud, siamo di fronte a un'analisi psicologica assai meno convenzionale di quanto la cornice dorata che l'inquadra lasci presagire, e non c'è motivo di dubitare che venga ulteriormente arricchita nella seconda metà di stagione.

Ma non è solo dolore, quel che abbiamo davanti agli occhi: a una Joan incapace di reagire costruttivamente a un trionfo che ha, per lei, il sapore di un'ennesima sconfitta, si contrappongono la grinta e la passione di una Bette che trova in Susan Sarandon la perfetta esemplificazione del concetto di rinascita, a dispetto degli ingaggi che stentano ad arrivare. E sull'urlo di dolore di Joan, cui Mamacita annuncia la mancata nomination all'Oscar come Miglior Attrice, andata invece all'odiata rivale, ci piace immaginare l'agguerrita Bette aprire la metaforica porta della rivalsa con un calcio, dimostrando al mondo che i tempi potevano davvero cambiare; così non fu, ma ci stiamo ancora provando.

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