Feud 1x01: la recensione

Sfugge alla trappola del puro manierismo nostalgico il primo episodio di Feud, sorretto da un cast eccezionale e da una scrittura sagacemente attuale

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"Le faide non riguardano mai l'odio; le faide riguardano il dolore." Così Olivia De Havilland, interpretata da una troppo giovane Catherine Zeta-Jones, introduce al pubblico la rivalità tra Joan Crawford e Bette Davis nel patinato, sfavillante incipit della prima stagione Feud, anticipato da una sequenza di titoli di testa che occhieggia in modo irresistibile ai credits dell'età d'oro di Hollywood, con riferimento esplicito alle grafiche di tanti thriller iconici di cui Che fine ha fatto Baby Jane? è, senza alcun dubbio, una delle perle di maggior luminosità, a dispetto dei rapporti turbolenti tra le due stelle che ne furono protagoniste.

In tutta franchezza, l'operazione Feud poteva sembrare, sulla carta, nulla più di un ammiccante susseguirsi di botta e risposta tra le due gigantesse che vi rivestono i ruoli principali: Jessica Lange, ingabbiata nei sorrisi di circostanza della sua Joan Crawford, e Susan Sarandon, esausta e incattivita vipera di genialità per dar corpo e anima a Bette Davis. A voler essere ottimisti, ci si sarebbe potuti aspettare un intrigante spaccato ricolmo d'indiscrezioni e personaggi coloriti, nonché una buona occasione per rivivere il fascino di un'epoca cinematografica ormai lontana e ammantata, ai nostri occhi, dell'indiscusso fascino aberrante della nostalgia.

E invece no. Il pilot di Feud, co-scritto e diretto dal vulcanico Ryan Murphy, non si accontenta di dare al pubblico ciò che si aspetta, ma scava alacremente, gestendo al meglio la materia (sopraffina) che ha tra le mani, e in questo sembra voler ripercorrere idealmente le tappe della lavorazione di Che fine ha fatto Baby Jane: con un cast così e una storia così, si può andare in profondità; una profondità che avvertiamo sin da quando vediamo il livore negli occhi di Joan mentre Marilyn ritira il Golden Globe nel 1961, uno sguardo che è sipario socchiuso su un'insicurezza e una frustrazione che troverà sfogo memorabile sul set del thriller di Robert Aldrich. Fresca di vedovanza e in condizioni economiche relativamente instabili, Joan rilascia dichiarazioni al vetriolo alla famelica reporter Hedda Hopper sulla volgarità promossa da Hollywood e dalla Monroe, mentre stenta a ottenere ruoli all'altezza di un passato glorioso che le fece conquistare, nel 1945, l'Oscar per Mildred Pierce.

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Già dai suoi primi passi, la serie dimostra - dietro una ricostruzione impeccabile - un intento attualizzante che fa onore all'intelligenza dei suoi autori. Joan, ormai superato il fulgore della sua giovinezza, non riceve più offerte allettanti: qui la serie di Murphy compie il salto, creando un immediato ed efficace parallelo con una stolida declinazione sessista dell'industria cinematografica che ancora, a cinquantacinque anni di distanza, stenta a essere superata. Invece di arrendersi, come molte colleghe ormai considerate poco appetibili a causa dello scorrere inesorabile del tempo, Joan si rimbocca le maniche e trova il ruolo per lei in una pila di libri accumulati dalla fedele Mamacita, scovando una parte che non sia quella della nonna di Elvis. Da grande donna, prima ancora che da grande attrice, comprende di dover trovare una coprotagonista in grado di reggere il confronto con lei: la scelta ricade su Bette Davis, star di prima grandezza negli anni in cui anche Joan spadroneggiava, ma che a teatro è costretta ad appassire in ruoli secondari. "Se qualcosa deve accadere, spetta a noi farlo accadere," suggerisce Joan, facendo leva su una solidarietà femminile che dovrebbe andare oltre la radicata rivalità maturata in anni e anni di circospetta osservazione a distanza, in un percorso costellato di ruoli soffiati, fidanzati rubati, matrimoni rovinati.

Popolano il palcoscenico di questa danza, che oscilla di continuo tra odio e stima, un corollario di fuoriclasse che fanno da corona perfetta ai due mostri sacri Sarandon e Lange: dall'insidiosa Hedda Hopper di Judy Davis al fumantino Jack Warner di Stanley Tucci, passando ovviamente per il Robert Aldrich di Alfred Molina, affamato di lavoro prima ancora che di gloria. Sono loro i volti volutamente segnati di una Hollywood che vede la crisi all'orizzonte, complice l'avvento della televisione: in tal direzione si orientano alcune delle strizzate d'occhio più deliziosamente meta dello script ("La televisione ti sta facendo il culo," provoca Aldrich all'indirizzo di Warner; e ancora, "Era solo un episodio pilota," il magnifico commento di Joan su una serie mai girata in cui era stata coinvolta).

È questa la storia di Bette e Joan ma, sembra suggerirci Murphy, è anche la storia di un intero mondo muliebre che da sempre stenta a trovare supporto al proprio interno, limitandosi a gelosie intestine e a ridursi un nugolo di nemiche l'una contro l'altra armate, in nome di una supremazia agli occhi del maschio che le ha rese fin troppo spesso ostacolo al raggiungimento della parità sessuale. Le prime nemiche delle donne sono proprio le donne, si sente dire spesso, e Feud punta il dito coraggiosamente contro un istinto al massacro tanto naturale quanto devastante. È dura, per Joan e Bette, accettare le proprie rughe sottolineate dall'impietosa fotografia di Ernest Haller senza versare lacrime, così come è dura sopportarsi e supportarsi essendo state entrambe imperatrici: tuttavia la scena di chiusura, in cui le due attrici si spalleggiano durante una cena organizzata dalla malevola Hedda allo scopo di far scoppiare una guerra tra primedonne, sembra suggerire che una tregua sia non solo possibile, ma necessaria, e che possa - nel caso di Che fine ha fatto Baby Jane? - dar vita ad autentici miracoli.

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