Ferrari, la recensione | Festival di Venezia

Un biopic convenzionale e stantio non rivela niente di reale su Enzo Ferrari ma scambia la narrazione per gossip

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Ferrari, il film di Michael Mann in concorso alla Mostra del cinema di Venezia

Adam Driver ha evidentemente una passione per i grandi marchi italiani e i patriarchi che li hanno fondati. Dopo House Of Gucci è di nuovo in Italia, in costume, di nuovo a litigare con una moglie, di nuovo tra beghe familiari e questioni di soldi, in Ferrari. Come già in Le Mans ‘66 - La grande sfida il periodo scelto per raccontare Enzo Ferrari è quello della crisi che portò alla vendita al gruppo Fiat, solo che stavolta siamo più dalle parti del biopic più tipico, in cui le corse sono una parte (nemmeno la più importante) del film che con una convenzionalità spiazzante per Michael Mann (una nemmeno rischiarata dall’aura del classico) salta meccanicamente tra vita privata e vita professionale del suo soggetto.

Lungo tutto questo film la sensazione è quella del progetto su commissione accettato per dimostrarsi affidabile (dopo diversi insuccessi) e non quella del film inseguito da circa 20 anni (come è effettivamente stato). Così stanca è la narrazione, così dimessa la messa in scena e così piegata su una mentalità più da produttore che da regista (quella che insegue il successo di ieri per fare quello di domani, invece che battere un percorso personale e originale) è tutta l’impostazione, che si fa fatica a immaginarlo come un altro film dello stesso regista che ha girato Manhunter o Collateral.

L’uomo Ferrari è raccontato attraverso l’ossessione per il controllo tipica più delle figure titaniche americane che di quelle italiane, in lotta con l’unica cosa che non può controllare: la morte altrui. Le beghe della sua società riguardano la morte dei piloti, quelle della vita privata vengono dalla morte del figlio Dino. La morte è l’unico punto di contatto tra le due dimensioni il cui contrasto non produce niente e che non sono in grado l’una di informare l’altra. Sono beghe, nel peggiore dei casi beghe familiari, vicine al gossip, cioè il rilascio di informazioni senza un senso più grande dietro ma con il solo fine del brivido della scoperta di qualcosa che altri vorrebbero tenere nascosta.

Fa impressione pensare che ci sia Michael Mann, il maniaco del controllo, dietro alcune delle sequenze di corsa in auto più blande di sempre e almeno una sequenza di incidente, la prima, terribile. Eppure è la scrittura il territorio che riserva le sorprese peggiori. Questo è uno di quei film in cui le persone si ripetono a vicenda cose che già sanno benissimo oppure si rivelano concetti elementari per dei professionisti del settore, con il solo scopo di dirlo a noi spettatori. Con simili battute possono poco anche gli attori. Per Penelope Cruz c'è il più mortificante dei typecasting, la donna mediterranea forte e intelligente, tradita e distrutta dalla morte di un figlio, in un angolo per tutta la vita; per Adam Driver l'enigma di un personaggio carismatico senza carisma. Lo stesso Enzo Ferrari infatti nel film più volte spiega se stesso e i suoi contrasti interiori a parole a qualcun altro, e queste esposizioni, come ad esempio quella delle ragioni per le quali è così freddo, uccidono definitivamente il personaggio. Lo posizionano da subito nella mesta arena di chi è così poco interessante da doversi spiegare agli altri senza che gli sia stato chiesto, invece che stimolare negli altri il desiderio di essere indagato.

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