Fela, il mio Dio vivente, la recensione

Una storia potenzialmente interessante che dentro di sè però non ha niente diventa in Fela, il mio Dio vivente un documentario spento

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione del documentario di Daniele Vicari, Fela, il mio Dio vivente, in sala dal 21 marzo

L’idea è di quelle intellettuali: non un documentario su Fela Kuti, musicista nigeriano, rivoluzionario dal grande carisma, dalla musica unica e dal forte attivismo politico, ma su una persona (italiana) e la sua ossessione per Fela Kuti, una che ha cercato di andargli vicino, di lavorare con lui, di conoscerlo e ne è rimasto folgorato. Ma non basta, con uno slancio ancora più intellettuale questo è un documentario su un film che non si è mai fatto, un film su Fela Kuti, per conoscere Fela Kuti, di cui esistono solo dei pezzi senza audio e moltissimo materiale girato su supporto video di bassa qualità. 

Al centro di quel che si racconta c’è quindi Michele Avantario, un videomaker, videoartista, produttore di trasmissioni televisive tra gli anni ‘80 e ‘90, lui è la voce narrante (che però è letta da Claudio Santamaria), che guida il documentario e suoi sono i video e le molte immagini girate tra Roma e la Nigeria, che costituiscono il grosso del documentario. Ma di Avantario non capiamo niente, anche se Fela, il mio Dio vivente è pieno di immagini da lui girate e questioni che riguardano la sua vita. Sappiamo quello che vediamo, cioè che aderiva a qualsiasi moda musicale del suo tempo, con look che tradiscono sempre gli anni cui appartengono, ma poco altro. Chi sia, cosa lo spinga e cosa pensi non lo sappiamo mai, nonostante Santamaria non faccia che leggere quelli che sembrano essere i suoi pensieri.

Vedendo il documentario viene da pensare che esistono limiti all'adesione di un filmmaker a ciò che racconta. Quest’uomo bianco che penetra il regno di Fela Kuti, in Nigeria, che interagisce con il suo entourage, conosce il luogo, rimane attratto da quella parte di Africa che sembra non avere niente di attraente, non è mai interessante, eppure il documentario non fa che presupporre che lo sia, lo illumina per guardare il riflesso di Fela Kuti in lui, nei suoi occhi e nelle sue immagini. È un rapporto quello tra questi due che di fatto non c’è, interagiscono blandamente e in modi molto poco significativi, come poco significativo è il rapporto di Avantario con il video. Perché l’altra grande possibilità a cui il documentario si apre è di parlare di un fallimento, di un film mai fatto e un rapporto mai concretizzato, ma nemmeno questo è significativo, la parabola di Avantario e del suo inseguimento di Fela Kuti è piena di mistica e paroloni ma nei fatti molto ordinaria.

In Fela, il mio Dio vivente vediamo anche alcune produzioni di Avantario come videoartista (arte di cui si dice innamoratissimo) e sono il livello zero della produzione video, quello che farebbe un adolescente con la sua prima videocamerina. Similmente anche il film perduto su Fela Kuti, quello senza sonoro, che a un certo punto Avantario decide di rifare o portare a termine, è qualcosa che (per quel che ne vediamo) risulta abbastanza blanda e poco interessante. Solo Fela Kuti, che rimane lontano per tutto il tempo, ha le caratteristiche di eccezionalità che potrebbero giustificare la visione e il documentario sembra non riconoscerlo. Poteva essere una storia incredibile di film brutti fatti o non fatti, di estetica povera e grandezza politico-musicale, ma non è nemmeno quello perché Daniele Vicari sembra credere nell’eccezionalità della storia di Avantario, nelle sue doti e nel suo progetto, quando quello che esce dal suo documentario fa pensare l’esatto contrario.

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