Feel Good (seconda stagione): la recensione
Nella seconda stagione, Feel Good conferma la capacità di Mae Martin di raccontare una storia complessa con sincerità
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Feel Good, seconda e ultima parte. Se la prima stagione della serie Netflix aveva raccontato con tono autobiografico la complessità di Mae Martin, questa seconda stagione rappresenta la catarsi per il personaggio/autore. Ancora una volta la protagonista e realizzatrice dello show si mette a nudo, letteralmente e figurativamente, per raccontare le proprie ansie. Per raccontare soprattutto le proprie negazioni, in quella che si rivela essere una sindrome da stress post-traumatico mai del tutto accettata. La storia d'amore sofferta tra Mae e George vive di alti e bassi, contraddizione, rabbia e dolore. Ma ciò che rimane forte fino alla fine in questa serie è la capacità di far convivere più registri in modo equilibrato e vincente.
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Mae Martin è riuscita con questa serie a fotografare con schiettezza la propria vita, mantenendo un registro invidiabile rispetto a eventi propri. C'è sincerità, arrendevolezza, empatia. E nulla di quel che viene mai raccontato scivola nel patetico o nel melodrammatico. Come nei dialoghi della serie, anche nella realtà la protagonista non cerca l'autoesaltazione, non vuole raccontarsi come la vincente che ce l'ha fatta, non vuole l'approvazione del mondo. I registri della storia scivolano l'uno nell'altro e si confondono, creando uno spettacolo che ha un ritmo forte, fa sorridere a denti stretti, colpisce emotivamente.
Nel fare questo, a volte è sopra le righe nella rappresentazione dei personaggi (vedi genitori di Mae), ma il più delle volte veicola un romanticismo sincero e un grande affetto privo di giudizio per le vicende che sta raccontando.