Feel Good (seconda stagione): la recensione

Nella seconda stagione, Feel Good conferma la capacità di Mae Martin di raccontare una storia complessa con sincerità

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Feel Good (seconda stagione): la recensione

Feel Good, seconda e ultima parte. Se la prima stagione della serie Netflix aveva raccontato con tono autobiografico la complessità di Mae Martin, questa seconda stagione rappresenta la catarsi per il personaggio/autore. Ancora una volta la protagonista e realizzatrice dello show si mette a nudo, letteralmente e figurativamente, per raccontare le proprie ansie. Per raccontare soprattutto le proprie negazioni, in quella che si rivela essere una sindrome da stress post-traumatico mai del tutto accettata. La storia d'amore sofferta tra Mae e George vive di alti e bassi, contraddizione, rabbia e dolore. Ma ciò che rimane forte fino alla fine in questa serie è la capacità di far convivere più registri in modo equilibrato e vincente.

Mae Martin è una (vera) stand up comedian, che qui ha avuto l'occasione di raccontarsi attraverso una serie distribuita da Netflix. Nella finzione dello show, Mae interpreta se stessa, e racconta con sincerità i propri problemi. Personaggio conflittuale, somma di contraddizioni e desideri. Comica in costante ricerca di conferme e opportunità, ma anche ex tossica con relazioni pesanti alle spalle, omosessuale (ma la sua identità di genere potrebbe essere più complessa). Qui la ritroviamo ad un centro di riabilitazione al quale la accompagna sua madre, interpretata qui da Lisa Kudrow. Tornerà presto alla sua vita e alla relazione con George (Charlotte Ritchie), ma tutto sarà molto complicato.

Mae Martin è riuscita con questa serie a fotografare con schiettezza la propria vita, mantenendo un registro invidiabile rispetto a eventi propri. C'è sincerità, arrendevolezza, empatia. E nulla di quel che viene mai raccontato scivola nel patetico o nel melodrammatico. Come nei dialoghi della serie, anche nella realtà la protagonista non cerca l'autoesaltazione, non vuole raccontarsi come la vincente che ce l'ha fatta, non vuole l'approvazione del mondo. I registri della storia scivolano l'uno nell'altro e si confondono, creando uno spettacolo che ha un ritmo forte, fa sorridere a denti stretti, colpisce emotivamente.

Al centro di tutto c'è l'urgenza dell'amore, e la difficoltà di essere se stessi temendo di non essere apprezzati per ciò che si è. Mae non scende mai davvero dal palco, continua ad indossare la propria maschera, e viceversa, quando si esibisce, non parla mai davvero di sé. Spezzata, insincera, anche rispetto a dei traumi del passato che faticosamente emergeranno qui. Si parla di un gravissimo periodo di fragilità quando era giovane, ma anche della distanza dai genitori, e di un grave episodio di molestie da parte di un collega. Feel Good, nel raccontare tutto questo, corteggia un realismo che non è mai tale, perché si muove dalle parti dei racconti semiautobiografici che abbiamo visto in tv negli ultimi anni (Special, Ramy).

Nel fare questo, a volte è sopra le righe nella rappresentazione dei personaggi (vedi genitori di Mae), ma il più delle volte veicola un romanticismo sincero e un grande affetto privo di giudizio per le vicende che sta raccontando.

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