Feel Good: la recensione
Bastano sei episodi a Mae Martin per costruire un racconto televisivo riconoscibile, carico di un'energia e una freschezza invidiabili
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Bastano sei episodi a Mae Martin per costruire un racconto televisivo riconoscibile, autobiografico quel tanto che basta, ma soprattutto carico di un'energia e una freschezza invidiabili. Feel Good è un breve squarcio sull'ansia di vivere di un personaggio che condivide lo stesso nome della creatrice della serie, e che dalla stessa è interpretata. Un lampo breve sulle fasi di una relazione romantica che conosce alti e bassi e che diventa anche racconto dell'accettazione di sé. La serie distribuita su Netflix si inserisce in un filone ormai riconoscibile di piccole serie molto ispirate, dominate da personalità giovani che raccontano con umanità le proprie vite.
La scrittura fresca e schietta di Mae Martin, che ha mantenuto il proprio nome per il personaggio che interpreta nella serie, cattura immediatamente l'attenzione dello spettatore. E Feel Good esplicita il senso del proprio titolo fin dalle prime battute. La relazione amorosa è definita a partire da una sensazione di puro benessere reciproco, semplice, ma umana in modo insopprimibile. Un bisogno emotivo che oltrepassa etichette di genere, barriere emotive in famiglia, pregiudizi e timore di essere rifiutati. Ma quel che davvero funziona in Feel Good è che non fa dei propri temi uno scudo per raccontare una storia prevedibile e banale.
Il rapporto tra Mae e George allora è figlio di contraddizioni, percorsi umani, scatti di emotività. È il racconto dell'esigenza della spontaneità per "sentirsi bene", anche nell'esposizione di sé, del corpo, delle necessità del piacere. In questo senso le scene di nudo e di sesso parlano lo stesso linguaggio del resto della serie: sincere, umane, non c'è nulla di gratuito o retorico nella serie. E la naturalezza con la quale ci si arrende alla sincerità di questo rapporto romantico, dimenticando la cornice della serie tv, è davvero notevole.