Favolacce, la recensione | Berlinale 2020

Più difficile, più complicato, più audace, Favolacce è grandissimo passo avanti per i fratelli D'Innocenzo verso il cinema d'autore

Critico e giornalista cinematografico


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FAVOLACCE, DEI FRATELLI D'INNOCENZO: LA RECENSIONE

C’è un velo di ineluttabilità in Favolacce, annunciato dalla voce fuori campo dimessa di Max Tortora che spiega l’inizio di questa storia, una specie di destino avverso che fin dall’inizio sembra incombere sui personaggi e, come nei film di Yorgos Lanthimos, condanna ogni loro azione ad essere un modo perverso di farsi male l’un l’altro senza provare sentimenti che non siano rancorosi, odiosi e insoddisfatti. Nei villini di Spinaceto, là dove le famiglie vivono una promessa di benessere falsissima, fatta di piscinette e giardinetti, subito smentita da corpi, volti e atteggiamenti, una promessa che nessuno poteva mantenere ma tutti fingono di aver mantenuto, dei bambini guardano i genitori e le loro piccinerie, la quotidiana violenza verbale e non che li circonda.

Di piccolo evento in piccolo evento, senza un preciso filo logico ma accostando situazioni, scenette e personaggi disegnati benissimo (sapendo lavorare proprio sul character design come fossimo in un film d’animazione), i fratelli D’Innocenzo stavolta raccontano qualcosa di al tempo stesso meno diretto e più sofisticato di La terra dell'abbastanza: la parte più schifosa dell’essere bambini. A suo modo anche questo è un coming of age, il passaggio tra un tipo di età e un altro, come già La terra dell'abbastanza, e a suo modo anche qui aleggia la morte come punizione per chi non riesce ad adeguarsi. L’infanzia di Favolacce è un continuo osservare impotenti il crollo delle figure genitoriali, sentire la pressione che sentono loro e avere modelli animati dai sentimenti peggiori.

Il buono è che se anche la scarsa manifestazione di emozioni sembra ricordare il cinema di Lanthimos va detto che Favolacce non ne ha assolutamente la freddezza. Anzi! È animato da un grandissimo calore verso i bambini e uno sguardo pietoso (detto s’intende, nell’accezione migliore) che danno un’altra svolta ad un film che già di suo segna un passo in avanti tecnico pazzesco. La capacità che ha quest’opera seconda di creare un’estate appiccicosa ed ingiusta, remissiva e piena di scoperte terribili e affascinanti è magistrale. Questione come spesso accade di fotografia e sound design, di abiti e di totali ma anche di una mano così forte da creare una grandissima coerenza nella messa in scena di tutto il film, lavorando di dettaglio in ogni inquadratura con una ostinazione e una testardaggine che spesso non si vede nel cinema italiano (molto più incline a sorvolare il dettaglio per badare alla prospettiva generale).

Con un passo verso il cinema d’autore rispetto al coming of age gangster che era La terra dell'abbastanza, i D’Innocenzo dimostrano di avere le carte per fare il cinema più difficile, di avere sempre qualcosa da dire e di avere il piacere di farlo con le immagini e con gli attori (con i quali fanno come sempre un grandissimo lavoro).

Forse Favolacce non è preciso, quadrato e diretto (e quindi godibile) come il loro esordio, ma è senza dubbio un salto in avanti la cui audacia e ambizione vanno salutate con gli applausi.

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