Fargo (stagione 5): la recensione

La nuova stagione di Fargo è un'acuta, spassosa riflessione sul debito e sul perdono, che guadagna in attualità ciò che perde in originalità

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Spoiler Alert

La nostra recensione della stagione 5 di Fargo, la serie di Noah Hawley trasmessa su Sky Atlantic

A metà Ottocento, lo statista britannico Benjamin Disraeli scrisse che "il debito è il padre d’una numerosa figliolanza di follie e di delitti". Guardando la quinta stagione di Fargo, da poco conclusasi, si ha la netta sensazione che il suo creatore Noah Hawley abbia mosso i propri passi da un concetto assai simile per costruire la parabola dolce, esilarante e cruenta della casalinga Dot Lyon (Juno Temple), del suo persecutore Roy Tillman (Jon Hamm) e della miriade di personaggi che orbitano, volenti o nolenti, attorno a essi.

Ciò che salta all'occhio sin da subito è il formidabile mosaico di volti e talenti messi insieme per comporre questo quinto capitolo dell'antologia targata FX. Non ci aspettavamo nulla di meno, ma le prove attoriali di Temple (finalmente in un ruolo all'altezza delle sue potenzialità), Hamm e di tutti i comprimari lasciano il segno, veicolati da una scrittura che alterna serio e faceto con una disinvoltura tuttora ineguagliata nel panorama seriale contemporaneo.

Non solo femminismo

A una prima occhiata, questo nuovo arco della serie derivata dal film dei fratelli Coen pare un elogio dell'emancipazione femminile, una dura condanna del maschilismo tossico e del morboso fascino che esso esercita su una determinata fetta di popolazione, specchio del declino degli U.S.A. (non a caso, la stagione è ambientata nel 2019, a ridosso dell'elezione di Trump).
A una prima occhiata, dicevamo.

In realtà, Hawley è narratore troppo raffinato per salire semplicemente sul cavallo vincente del momento senza scavare più in profondità: in fin dei conti, in Fargo il tema politico-sociale è sempre subordinato alla godibilità della trama (al contrario di tanti prodotti-manifesto contemporanei che, al di là del nobile messaggio, poco o nulla hanno da offrire a livello di intrattenimento). La storia di Dot non fa eccezione, seppur esaltando la resilienza della protagonista, fuggita da un marito violento per ricostruirsi una vita e costretta, dieci anni dopo, a fare i conti con un passato che sperava dimenticato.

Rimetti a noi i nostri debiti

Di cosa sta parlando dunque Hawley quando racconta la storia di Dot e, con lei, quella del nuovo marito Wayne (David Rysdahl), del misterioso sicario Ole (Sam Spruell), erede di una lunga tradizione coeniana di tagli improbabili che vede nel killer Chigurh di Javier Bardem il suo esponente più memorabile? Vendetta, certo. Sopraffazione, anche. Ma alla radice di tutto c'è un tema portante, splendidamente incarnato dalla Lorraine di Jennifer Jason Leigh (glaciale, odiosa, pazzesca), sprezzante suocera di Dot nonché CEO della più grande compagnia di recupero debiti degli Stati Uniti.

Ecco: il debito. Tutta la stagione ruota attorno a questo semplice concetto. Roy insegue Dot perché lei è in debito con lui, essendosi sottratta alla vita coniugale che, dal punto di vista del tirannico sposo, era un dovere, un impegno insolvibile (se non attraverso l'omicidio da lui messo in atto per liberarsi della precedente moglie). Vediamo poi l'agente Indira (Richa Moorjani), incastrata in una carriera senza prospettiva di crescita, sulle spalle ancora il gravoso debito studentesco contratto anni prima per completare gli studi. E Ole, che del saldare i debiti ha fatto la propria ragione di vita, seguendo da secoli (sì, c'è una parentesi soprannaturale) un manicheismo che lo blocca e logora dall'interno.

Come noi li rimettiamo ai nostri debitori

Con l'intelligenza che è propria dei grandi narratori, Hawley fa fiorire dunque il tema di facciata (la violenza domestica), rendendolo solo uno dei tanti aspetti del vero argomento della stagione. Si parte dalla situazione più specifica e personale, andando ad allargare la riflessione fino a coinvolgere un intero paese. Chi è davvero in debito tra Dot, moglie-burattino (metafora esplicita) in fuga dal sacro vincolo, e Roy, marito abbandonato che le ha fratturato la schiena? E cosa deve un'agente devota, stacanovista, a un sistema educativo che ancora bussa alla sua porta dopo vent'anni?

Fargo ragiona con intelligenza su come il concetto di debito possa renderci, agli occhi del mondo, persone degne o meno di fiducia, secondo una logica distorta e alienante che ben viene esemplificata dalla scena finale della stagione. Risolta la sua odissea di sangue e rientrata nella normalità del suo nido domestico, Dot si ritrova faccia a faccia con Ole, determinato a saldare i conti con colei che era stato incaricato di eliminare dal mondo. Messi l'uno di fronte all'altro, essi si scoprono simili. Dot lo persuade a estinguere il debito attraverso la compassione e il perdono; quella che potrebbe sembrare una conclusione buonista è, invece, una riflessione acutissima sul modo rabbioso in cui gli U.S.A. hanno costruito la propria visione sociale: una visione basata sul concetto che non saldare i nostri debiti ci renda, automaticamente, cattive persone.

Ego te absolvo

Altro fulgido esempio di questo tema sotterraneo è Gator (Joe Keery), primogenito di Roy, reso cieco - ben prima di subire la menomazione fisica - dal senso di inferiorità nei confronti del padre. Il motore delle sue scellerate azioni è il debito nei confronti del genitore, un debito psicologico ed emotivo che solo la morte o il perdono possono estinguere. Gator non riesce a perdonarsi di non essere come suo padre e, per colmare questa lacuna, dissemina il proprio percorso di atti efferati e immorali; illuminante vederlo, alla fine della sua parabola, ormai cieco e orfano, venire confortato dalla stessa Dot che aveva tormentato fino a poco prima.

In questo senso, Dot è una figura quasi messianica, dispensatrice di assoluzione laddove ravvisa il germe della bontà e della sofferenza. Questo vale per Gator come per Ole e, in misura ancor più profonda, per quella suocera che l'aveva sempre umiliata ma che è artefice ultima della sua salvezza. Sarà proprio Lorraine a divenire mano di una giustizia "altra" rispetto alle mancanze del sistema legale, rifiutando a Roy la tranquillità garantita dalla cornice carceraria. Se Dot è una moderna Gesù, Lorraine è invece uno spietato San Michele, che determina una pena senza fine per il peccatore Roy; perché, al di là di ogni parallelismo religioso, non può esserci assoluzione laddove non ci sia almeno un barlume di pentimento.

La nuova Fargo

Qualcuno potrebbe rimproverare a Fargo 5 di peccare di originalità rispetto alle situazioni più grottescamente visionarie cui le stagioni precedenti ci avevano abituati; c'è del vero, ma la forza del racconto resta immutata, enfatizzata da un senso di contemporaneità che nessuno degli archi precedenti aveva manifestato in modo così evidente. Inoltre, la peculiare scelta di concludere questo racconto con un'apologia del perdono la distacca in modo netto dalle sue sorelle maggiori. Temevamo il peggio o, comunque, una conclusione agrodolce, in linea con quanto la serie aveva fatto finora.

Invece, al netto della malinconia per la morte dell'agente Farr (Lamorne Morris), Fargo 5 non calca la mano sul dolore nella sua conclusione. Tutt'altro che una scelta di comodo, per un prodotto che aveva fatto del cinismo e dell'ironia dissacrante la propria cifra stilistica. È proprio qui la forza di questa stagione, nonché la miglior premessa per il futuro della serie: nella capacità che ha di riuscire ancora a sorprendere. Non è la solito Fargo ma, proprio per questo, è la Fargo di cui abbiamo bisogno.

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