Fargo 2x04, "Fear and Trembling" - La recensione

Ci si prepara alla guerra armati di speranze che assomigliano a illusioni nel quarto, splendido episodio di Fargo

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Spoiler Alert
"Sarei stata libera, come qualcuno che ha sognato prima di svegliarsi." Questa la frase con cui Simone Gerhardt (Rachel Keller) ripensa nostalgicamente agli anni '60, gli anni dell'amore libero, gli anni in cui ci si poteva svegliare un mattino e decidere di chiamarsi Goccia di Rugiada senza preoccuparsi del domani, di quei drammatici anni '70 in cui Fargo ha luogo. E Fear and Trembling, quarto episodio della serie Fox, ha davvero il sapore di un brusco risveglio da un sogno per tutti i combattuti protagonisti che animano la sua affollata - ma mai confusionaria - scena.

Parliamoci chiaro: Fear and Trembling è l'episodio che stavamo aspettando dall'inizio della stagione, il punto di rottura che spinge tutti i personaggi principali a compiere delle scelte decisive quanto drammatiche, nonché l'acme di tensione della storia finora narrata. D'ora in avanti, come dice Floyd Gerhardt (Jean Smart), sarà la guerra. Hanzee Dent (Zahn McClarnon) si configura sempre più come una versione più soft e umana dello spietato Anton Chigurh di Non è un paese per vecchi, e la sua indagine si muove su binari paralleli a quella di Lou Solverson (Patrick Wilson). Entrambi gli uomini arrivano finalmente a Ed e Peggy Blomquist (Jesse Plemons e Kirsten Dunst), quasi in sincrono. Il che, se da una parte mette i coniugi in una pessima posizione, dall'altra offre loro l'estrema possibilità di salvezza. Ma la guerra - Hanzee - non bussa alla loro porta, si insinua a loro insaputa negli spazi domestici alla ricerca di indizi e, puntualmente, li trova. A nulla valgono i tentativi di Lou di far confessare ai due coniugi cosa è realmente accaduto la fatidica notte in cui Peggy investì Rye Gerhardt: i Blomquist, divisi su ogni altro aspetto della vita e proiettati verso un futuro di coppia popolato di macerie, sono compatti nell'affrontare la rovina mano nella mano, e si avviano con passo tremante verso l'abisso.

Stessa cosa si potrebbe dire anche di Floyd, che dimostra ancora una volta una tempra tale da farla assurgere a eroina drammatica, malgrado sia manicheisticamente ascrivibile all'universo dei villain. La donna rifiuta la proposta della malavita di Kansas City, ribatte con una controproposta che non snaturi il "lavoro" fatto dalla famiglia Gerhardt nel corso dei decenni, e nel far ciò parla di cessione e collaborazione come se stesse gestendo un'azienda regolare. Il suo dolore nell'assistere al rigetto secco dei suoi piani dà la perfetta misura di quanto, in Fargo, il bene e il male coesistano in modo straniante ma convincente - così come la scena in macchina con Dodd (Jeffrey Donovan), che la scena d'apertura c'insegna a conoscere come allevato nel culto della violenza come unica forma di dialogo.

Tra i punti di forza di questa seconda, splendida stagione spicca quindi l'assenza di villain tradizionalmente intesi. Ogni personaggio ha le proprie fragilità e, quindi, offre al pubblico un potenziale empatico che era ben più labile nella prima stagione. Ciò che si avvicina di più al cattivo classico è Mike Milligan (Bokeem Woodbine), ma persino lui sembra avere dei punti vulnerabili che lo rendono estremamente umano. Ma il dramma umano più intenso è quello che deriva, in brevi ma pregnanti scene, dalla malattia di Betsy (Cristin Milioti). Anche lei è in guerra, con un coraggio che supera quello di qualunque sparatoria, il coraggio silenzioso di chi lotta contro un nemico interno e invisibile senza farlo pesare su chi ama. Un dramma analogo, anche se con pesi e conseguenze diverse, a quello di Peggy, sola nel dolore della propria insoddisfazione, in fuga da quel concetto melenso e trito di sogno domestico americano in cui Ed si culla.

Anche lei, come Betsy, dissimula e cela la propria guerra al marito, ma Ed e Lou sono uomini diametralmente opposti e la battaglia di Betsy non è solitaria quanto quella di Peggy che, con le sue piccole ridicole pretese di crescita, è forse il personaggio più ordinariamente tragico dell'intera serie. Ella è, come tutti i protagonisti, appesa a una speranza tanto radicata da sfidare il realismo crudo del mondo che irrompe nel sogno cui accenna Simone. Lou deve credere che Betsy stia prendendo il farmaco sperimentale e non il placebo. Ed deve credere che sua moglie condivida il suo zuccheroso sogno familiare. Floyd deve credere che la tenacia basti a garantire la sopravvivenza della propria dinastia. Sono speranze illogiche ma necessarie, illusioni quasi foscoliane che creano il collante più potente che si possa vedere in tv. Perché più potente del soffrire con i protagonisti, c'è solo lo sperare - e disperare - con loro.

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