Il faraone, il selvaggio e la principessa, la recensione

Michel Ocelot stavolta consegna un film a episodi incorniciati da una narratrice che simula il cinema ma non rinuncia al suo stile

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Il faraone, il selvaggio e la principessa, presentato alla Festa del cinema

Nel grande mondo dell’animazione per ragazzi che viene prodotta e guardata da adulti la produzione di Michel Ocelot ha un posto tutto suo e una sorta di ragionevolezza molto più spiccata rispetto ai suoi pari, una che gli viene da un gusto e una profondità di riferimenti, quelli davvero in grado di dar vita ad un prodotto per adulti elevato. Il punto è che Ocelot ha la mano del gigantesco illustratore e la testa del vero cineasta, non crea solo immagini di incredibile perfezione e criminale attrattiva, ma ha anche un gusto per l’uso dei mezzi della messa in scena e del racconto sul grande schermo che fanno impressione, soprattutto per come li padroneggi al punto di saperli adattare alle sue ossessioni ogni volta.

In Il faraone, il selvaggio e la principessa ci sono tre storie narrate da una ragazza ai suoi compagni operai, una cornice che somiglia a sua volta ad uno schermo con gli spettatori/ascoltatori nel buio che fanno domande. Il gusto da rito collettivo partecipato del cinema e al tempo stesso la sua origine da racconto davanti ad un pubblico. Le tre storie sono tre favole legate a forme diverse di narratologia tradizionale, fondate sulla ripetizione di dinamiche fisse in cui piccole evoluzioni hanno il compito di portare avanti il racconto. Tutto con una fortissima radice etica, se non proprio morale. Niente di più blando sparato con un ago dentro le pupille dalla palette di colori su cui Ocelot sembra aver apposto un copyright così che nessun altro la possa usare.

A contare infatti non sono mai questi colpi nostalgici ma la maniera in cui usa il cinema a tutti i livelli, con continue trovate stupefacenti. Nella prima storia ad esempio il calco continuo sull’estetica da geroglifico stimola trovate eccezionali, nella seconda il lavoro sul sonoro è mostruoso, realmente, e in tutte e tre la maniera in cui integra la computer grafica tridimensionale dentro al suo stile (forse il più piatto in circolazione oggi) è magnifico. 

A Ocelot sembra riuscire tutto all’interno di continui paletti. Nella sua idea di cinema i movimenti sono essenziali e l’espressività dei personaggi è ridotta al minimo possibile, tutto l’arsenale espressivo di cui ha bisogno sta nella composizione delle inquadrature, negli sfondi (incredibili, sempre diversi, sempre di mostruosa precisione) e nel character design. I luoghi parlano per i personaggi e ci dicono tutto quello che le loro espressioni non comunicano (come faceva l’animazione per la televisione nipponica del resto). Il potere evocativo che è in grado di mettere su schermo Ocelot è la sua narrazione, da solo, e dà un significato unico e suo al concetto di esotico che potremmo anche chiamare ocelotiano.

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