Families Like Us, la recensione: il diluvio universale di Vinterberg trabocca umanità
La recensione di Families Like Us, la serie di Thomas Vinterberg presentata all'81 esima edizione del Festival di Venezia
Qualcuno potrebbe ravvisare un certo simbolismo nel fatto che Families Like Ours venga presentato proprio alla Mostra del Cinema di Venezia, crepuscolare trionfo urbano probabilmente destinato, prima o poi, ad inabissarsi. La serie, scritta e diretta da Thomas Vinterberg, immagina infatti un futuro non lontano in cui l'intera Danimarca - paese agiato, ricco, evoluto ai nostri italici occhi - viene sommersa a causa dell'innalzamento del livello degli oceani. Tutta la popolazione è costretta a evacuare, a cercare una nuova casa, conscia di non poter mai più mettere piede nel proprio paese natio che, di lì a poco, diverrà un immenso memoriale a cielo aperto, rendendo ogni Danese un apolide.
Dal punto di vista visivo, Families Like Ours mantiene la cifra stilistica tipica di Vinterberg, con una fotografia che riesce a catturare sia la bellezza nostalgica dei paesaggi danesi in procinto di scomparire, sfumando dalle solari tonalità del primo episodio verso atmosfere sempre più plumbee, chiaro rimando alle piogge incombenti. Una ricerca estetica che non è mai fine a sé stessa, ma che è sempre atta a inquadrare il mondo interiore dei protagonisti. In questo senso Families Like Ours dipinge, in ogni scena, un affresco di vita a sé, in cui i temi della perdita e della rinascita si intrecciano con la straniante, sofferta ricerca di una normalità forse perduta per sempre.
A coronamento di un'opera di mirabile armonia in ogni comparto, la colonna sonora curata da Valentin Hadjadj posa un velo di profondità emotiva sulla storia, alternando brani delicati e minimali alla maestosità di un leitmotiv barocco, quel Miserere di Gregorio Allegri che amplifica, in ogni sua comparsa, il senso di inevitabile apocalisse che grava sull'orizzonte dei personaggi.
Consapevolmente fuori dai confini del genere catastrofico, Families like ours è dunque un atto d'amore struggente e spassionato per il popolo danese, scevro però da campanilismi retorici; Vinterberg è da sempre eccelso cantore delle emozioni umane, e riserva a questa storia di diaspora le corde più delicate e dolenti della propria cetra. C'è, nei sette episodi che compongono la serie, tutta la sottile malinconia delle sue opere più intimiste, unite a un senso di fatalità che riesce a mantenersi lontano dalla più stucchevole disperazione.
Un inno alla resilienza dell'essere umano, un monumento glorioso alla persistenza dei legami e, al contempo, un amaro presagio di ciò che presto o tardi potrà colpire uno, dieci, cento paesi del mondo. Come detto, il cambiamento climatico non viene mai strumentalizzato politicamente: a Vinterberg, in questo frangente, non interessa. Il suo romanzo seriale sfrutta lo scenario apocalittico (non a caso, ogni capitolo ha per titolo un verso della Rivelazione di Giovanni) per parlare dell'animo umano (come già fece, con toni assai più angosciosi, Von Trier in Melancholia), preoccupandosi di mostrare la progressiva e ineluttabile sommersione non tanto di Copenaghen, quanto delle vite dei suoi protagonisti.
Un Diluvio - non Universale, ma Nazionale - che scava, goccia dopo goccia, nel cuore dello spettatore, portandolo a un livello sorprendente di immedesimazione con le tormentate figure che popolano questo palcoscenico grondante lacrime e pioggia, mantenendo però un rigore e una sobrietà dinanzi al disastro che è propria dei grandi poemi.