Familia, la recensione: un dramma tratto da una storia vera che non convince ma stimola il dibattito

Familia potrebbe usare la storia vera da cui è tratto per affrontare discorsi complessi, invece la usa per semplificarsi

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Il fatto che un film sia tratto da una storia vera non dovrebbe comportare per forza che tutta la vicenda si svolga seguendo una realistica prevedibilità negli eventi che racconta e nei temi che affronta. Familia è tratto da una tragedia realmente accaduta e raccontata nel volume autobiografico Non sarà sempre così di Luigi Celeste. Dal primo momento la regia di Francesco Costabile non fa nulla per celare la direzione che intraprende la storia. Come a dare per assodato che lo spettatore sappia come andrà a finire (che abbia quindi letto la cronaca o il libro). C’è una direzione chiara presa dal primo atto, che viene confermata di scena in scena. Arrivati al finale, non ci si stupisce.

Non per forza questo è un problema, la trama è solo una piccola parte dell’opera. Familia però fatica anche a portare all’interno dell’esperienza famigliare, a dire cioè qualcosa di nuovo attraverso i suoi protagonisti. Franco Celeste è un padre e un marito violento. Dopo un decennio in carcere viene rilasciato e torna nella vita della moglie Licia e dei figli Luigi e Alessandro. Il pronunciato tono horror con cui viene introdotto il padre-mostro interpretato da Francesco Di Leva prometteva di rendere Familia un’analisi psicologica della convivenza con il fantasma di una violenza passata, degli incastri psicologici che portano a tornare, impotenti, sempre allo stesso punto. 

Invece il film sembra essere molto più appagato dal suo tono drammatico che dai suoi personaggi. Delega l’approfondimento psicologico alle interpretazioni. Sono tutte buone, talvolta eccessive, e in questa contraddizione naviga soprattutto quella di Barbara Ronchi, che meritava un maggiore screentime. Costabile fatica a trovare il suo protagonista. Sono quattro i personaggi principali, solo tre spiccano (il fratello Alessandro è interessante, ma poco approfondito). 

Anche in questi tre però manca la capacità di decidere di chi sarà la prospettiva che guida l’opera. Non è quella del violento, mai raccontato nel suo impulso distruttivo, ma solo mostrato come tale. Non è quella della donna, mai aiutata dalla giustizia, paralizzata nella convinzione che, qualsiasi decisione prenda, perderà in qualche modo. Lo sguardo prevalente sembra essere di Luigi, il figlio che ha trovato nelle compagnie di neofascisti il suo mondo accogliente, ma la spiegazione di molte sue scelte di vita è delegata allo spettatore. Perché è diventato un picchiatore? Perché prova a ricucire il rapporto con suo padre? La sua ragazza cosa sa e cosa vede in lui? Il tutto viene ricondotto al più generico dei traumi, al passato difficile che porta a fare scelte sbagliate. È troppo poco. 

Familia non è girato male, anzi! Solo che questo linguaggio lo usa per confermare tutte le convinzioni con cui si entra in sala. È come se cercasse di portare lo spettatore a vivere un dramma che può immaginare autonomamente. Un tentativo di indignare chi è già indignato e di fargli fare esperienza di un contatto con la violenza assoluta che serve più come stimolo di dibattito dopo la visione che come film in sé.

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