La recensione del film di apertura del festival di Locarno, The Falling Star
The Falling Star è ambientato nel mondo di
Aki Kaurismaki anche se
Aki Kaurismaki non ha niente a che vedere con la realizzazione del film. È ambientato a Bruxelles ma in una zona portuale, si svolge per lo più in un bar arredato in stile anni ‘50, ha musica rock anni ‘50, ha colori decisi (rossi, verdi e blu), tavoli in formica e ha personaggi da
Kaurismaki, con camicie dai colori ugualmente decisi, che incarnano archetipi narrativi di genere (il killer, l’uomo che nasconde il suo passato, il sosia, l’investigatrice privata…). Infine ha l’umorismo di
Kaurismaki, giocato in sottrazione, e quello stile recitativo serafico e astratto. Solo che
Dominique Abel e
Fiona Gordon (sceneggiatori, registi e anche protagonisti del film) vengono dal teatro e alla fermezza delle composizioni di
Kaurismaki sostituiscono la mobilità dei corpi nello spazio e le tecniche da mimo, inventano molte situazioni in cui il movimento degli attori e la maniera in cui interagiscono tra loro (con echi da comici del muto) sono cruciali.
Fatti i dovuti distinguo e dato a Cesare quel che è di Cesare, l’impressione è che The Falling Star parta dalla medesima dislocazione di Kaurismaki per andare altrove. Siamo sempre in un presente che sembra passato, cioè in un angolo di mondo dei nostri giorni in cui tutto sembra fermo ad un’altra epoca (persone incluse). Sono i marginali della società, non solo proletari ma proprio gli esclusi dalla modernità che per questo sembrano esistere in posti che non conosciamo e con tempi e storie che non conosciamo. Non tengono il passo del presente, sono rifiutati dal presente, sono scemi, sono pericolosi (il protagonista è un bombarolo degli anni ‘80 che da quel momento vive nascosto, ma ora qualcuno lo ha trovato e lo vuole morto) e vivono passioni che sembrano la loro unica possibilità di affermare di essere vivi.
È la maniera in cui
Abel e
Gordon cercano in ogni scena di reinventare la messa in scena perché possa ospitare un nuovo ibrido tra la performance teatrale e il cinema, il modo in cui per farlo attingono alle esperienze del muto ma in ultima analisi sembrano sempre prediligere il teatro filmato, che spinge altrove, verso l’astrazione. Eppure non sembra mai parlare la lingua del cinema. Lo si capisce (paradossalmente) nel più riuscito di questi momenti, quando il bombarolo si muove in casa sonnambulo sognando un suo vecchio attentato, si sposta nelle stanze e capiamo da come mima i movimenti che sta preparando una bomba, la sta piazzando e poi scappa a nascondersi. Tutto avviene durante un temporale e lo scoppio della bomba nel sogno coincide con un tuono potente che apre le finestre e lascia entrare pioggia. È tutto perfetto e la performance contamina un film pieno di umorismo con una tragicità (recitata in modo impeccabile con tutto il corpo) che è impossibile da evitare. Ma è anche la dimostrazione di una fusione che nel resto del film non si trova, quella sarebbe l’intenzione del film ma quello non è ciò che il film riesce a fare.
Nonostante il suo intreccio dolcemente classico (il bombarolo vorrebbe sfuggire alla persona che lo ha riconosciuto e per caso incontra il proprio sosia, dunque con i suoi sodali pianifica la sostituzione così che sia il sosia a essere ucciso al posto suo) The Falling Star non è un film di trama, non è un film in cui conta cosa succede, ma contano le singole scene, conta la maniera in cui i personaggi parlano con corpi atletici da mimo, contano le gag e il rapporto con il mondo che queste raccontano (proprio come nel cinema muto). Nel momento in cui il mondo però è preso in prestito da un altro autore, e non sempre l’integrazione tra l’esperienza teatrale è davvero trasformata in qualcosa di cinematografico, l’interesse è proprio basso.