Falling, la recensione

Viggo Mortensen riesce a suggerire l'aspetto drammatico di un rapporto tormentato, non infondendo però alla storia una direzione emotiva totalmente chiara e significativa

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Falling, la recensione

Nasce sicuramente da un’esigenza personale Falling. Non solo perché si tratta dell’esordio alla regia e nella sceneggiatura di Viggo Mortensen in un film in cui questo ci mette anche la faccia come co-protagonista; ma perché, soprattutto, emana una voglia incredibile del suo autore di fare un tipo di cinema dove è il gioco dei sentimenti - non lo studio dell’immagine - e la capacità appunto attoriale di sfumare i confini delle emozioni a fare da architrave al film. Tutto ciò è lampante. Quale sia però questa esigenza è difficile capirlo, perché in questo tormentato dramma sul rapporto padre-figlio (e che Mortensen dedica ai suoi due fratelli) il tema è chiaro ma il focus è confuso, si moltiplica attraverso una serie di “lenti narrative” che propongono la storia attraverso fin troppi punti di osservazione. 

Malato di demenza, sessuomane, misogino, omofobo: il protagonista Willis (Lance Henriksen) non si fa mancare niente, ma sicuramente ha fatto mancare amore per tutta la sua vita al figlio John (Viggo Mortensen). John invece con la tenacia di chi ha già fatto i conti con la malattia del padre e la sua anaffettività (se sempre disinnescare quando lo provoca, sa sempre trattenersi) lo accoglie nella sua casa in California mentre gli cerca una sistemazione nelle vicinanze, da cui lui e suo marito Eric (Terry Chen) possano tenerlo d’occhio. Willis va d’accordo solamente con la nipotina, mentre per tutte le altre persone della famiglia, ma soprattutto per John, non è che una mina vagante pronta a sputare odio e rancore senza pietà. Per Willis e John sarà l’ultima e impossibile occasione per riappacificarsi.

Willis è un personaggio talmente spregevole, odioso, insopportabile mentre tutti gli altri sono talmente servili e pazienti con lui - John in primis, che è sempre contenuto - che il sentimento prevalente è il nervosismo. Manca il passo successivo, minimo, della creazione dell’empatia, perché questa fastidiosa sensazione se ne va solamente alla fine, quando Mortensen si lascia andare in un breve quanto catartico monologo fatto di urla in faccia. Per il resto, per quanto Mortensen possa sembrare perfezionista e dedito al dettaglio, con il suo uso quasi ossessivo dei particolari e di immagini evocative, quello che davvero fa intendere qui tra le righe è che il cuore del film sta sempre altrove, oltre ciò che vediamo: nei “non detti” tra due sguardi, nelle ellissi tra due scene, nei ricordi rievocati e de-contestualizzati e che sembrano fin troppo essenziali per tenere in piedi la storia.

Questa a volte è la forza (nei momenti in cui immagine e significato metaforico si allineano) ma più spesso la debolezza di Falling: suggerisce, semina indizi senza mai darti la soddisfazione di comprendere quale sia il punto di ciò che si sta vedendo. La regia sembra in questo senso timida, e il fatto che Mortensen non si soffermi mai troppo su una scena appare più come un modo per scappare da un confronto alla pari con la propria che una scelta poetica ben precisa.

L’amore travestito da odio di un figlio per un padre che è stata una persona orrenda (ma che comunque è un padre) è qualcosa di difficilissimo da rendere senza essere troppo apatici o troppo compassionevoli. Mortensen la trova sì questa misura, ma solo nel momento in cui riassume tutto negli ultimi momenti, dando un senso solo a posteriori a ciò che viene visto: regalandoci una sola lacrima di liberazione come ricompensa per tutto quel dolore.

Cosa ne dite della nostra recensione di Falling? Scrivetelo nei commenti!

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